Franco Moramarco

Considerazioni sul Natale

SPECIAL ONE | MAR 2023

L’aria di Natale invadeva la casa assieme alla pianta di “stelle di Natale” che qualche zia zitella ci regalava ogni anno e che puntualmente moriva d’incurie a Carnevale. Per me la festa era continua, prima, durante e dopo il giorno di Natale, come se ogni sordo pomeriggio di febbraio non fosse stato creato per altro che essere giocato. Ma sopra a tutto c’erano i ‘grandi’, seri figuri che si cibavano di medicine e politica ed avevano più o meno tutti l’odiosa abitudine di lavorare. Nel periodo di Natale, poi, ci sembravano ancor più noiosi perché pareva che per loro il tutto fosse più che altro un’occasione buona per potersi rintanare in “santa pace” in casa al caldo; nessuno di noi sapeva o s’interessava se la pace fosse o meno santa, ma di sicuro, in breve, come ospiti e pesci puzzava di marcio. Il fatto è che facevamo benissimo a meno dei goffi giochi dei ‘cresciuti’ i quali, anzi, rubavano tempo alle attività più appassionanti, come la caccia ai pesci nel fiume ed ai piccioni sotto le grondaie sfondate dalle case vecchie. 

Più si scopriva che il mondo era enorme ed affollato di cose ignote ed affascinanti e più sembrava che gli adulti si prodigassero in filippiche da farti raggelare di notte nelle coperte. Ricordo come se fosse ieri la predica che i suoi genitori appiopparono al mio amico Luca, un bambino più largo che alto, sul Sagrato della Chiesa, solo perché durante la Messa s’era intrufolato in Sacrestia ad assaggiare il vino del prete. 

Più acutamente sentivamo la grettezza del mondo degli adulti a Natale, quando ognuno si immergeva nell’apnea dei regali, ognuno nella sua propria, misconoscendo ogni altra attesa, seppur dev’esserci.

Le strade della città degli adulti eran più tristi che mai: i festoni elettrici se ne stavan appesi alle finestre come addobbando l’enorme albero di Natale di Lecco che continuava il suo febbrile lavoro fin a un istante prima della Messa, s’abbuffava a quattro ganasce e se ne tornava a lavorare. E poi c’erano i padri di famiglia parcheggiati a pancia all’aria sulle poltrone. Non dico della tristezza che m’incutevano gli zingari straccioni che venivan assunti ed evitati dagli sguardi di tutti quasi che fossero la palla sbrecciata che s’appende al ramo più nascosto dell’albero.

Allora il pensiero di Natale mi turbava, imperscrutabile come la noce di un gheriglio affascinante e favoloso, circondato da una muraglia mutevole come gli occhi di un ipnotizzatore. 

Quella Vigilia la passai ad inseguire per le strade natalizie la misteriosa ragione per cui bisognava essere felici della nascita di un bambino dopotutto piuttosto comune. Mi avevano parlato della gioia dei poveri, quasi che quel bimbo fosse nato a capo di una Società Caritativa e c’invitasse tutti a bacchettare le ginocchia sulle nodose panche della Chiesa. Mi dicevano della bontà e delle altre favole ed era evidente che non attendevano altro che la mia tregua o la mia finale resa al mondo grigio e senza disordine della serietà e del riposo natalizio. 

La città vestita a festa urlava, più che chiederlo, d’essere frastornato e che era parecchio ovvio sentirsi frastornati a Natale. Non c’è che dire, tuttora mi sento frastornato e soprattutto a Natale.    

Il Natale, lo sapevo, mi aspettava in qualche cortile ghiacciato come vetro e rimbombante dei sottili strilli; il Natale doveva avere il volto di una bambina che giocava, mi dicevo. Non quello patetico della ‘Piccola Fiammiferaia’ che con le sue smancerie ci frustrava ad ogni Vigilia, quasi che fossimo colpevoli di non passare la mezzanotte a scaldarci alla luce di un ultimo cerino. 

Il pomeriggio mi unii con qualche amico e camminammo su e giù per Pescarenico, fantasticando chi più chi meno sui giocattoli che sicuramente non avremmo ricevuto. A un tratto, come zattere in una tempesta, accostammo al cortile del vecchio Selva. Il vecchio Selva, l’uomo più antico del mondo sebbene non avesse che settant’anni, era un attaccapanni sempre vestito di nero stracciato, con arti corti e secchi attorno a cui maniche e calzoni danzavano ridenti e abbondanti. Il suo cortile fra le vecchie case del fiume era un acciottolato quadrato bianco su cui spiccava un rosone di schegge di marmo nere come un’enorme ruota raggiata e agli angoli del chiostro, da quattro vasi di selce, delle piante facevano cucù in leggere cascatelle azzurre. Ciononostante il cortile era sempre in aria sarabanda, forse per il malnato stormo di piccionacci che zoppicavano perennemente avanti e indietro, becchettando frammenti di pane stantii. Venivamo spesso da Selva per cacciare i poveri uccelli e lui, che i piccioni non li poteva proprio vedere, ogni tanto ne abbatteva uno con la ramazza e allora lo si portava a spasso con la corda a una zampa. 

Quella Vigilia tutta Pescarenico era bianca incappucciata di neve e doveva essere ormai nevicato tutto il cielo, anzi, solo una parte, perché ancora ne scendeva. 

Quando entrammo nel cortile del vecchio Selva, silenziosi per non spaventare gl’immancabili piccioni, gettammo un’occhiata attorno e restammo pietrificati: il cortile era più lucido di un piatto di porcellana, lustro e quasi asciutto sotto i fiocchi che cadevano, ed il vecchio Selva con la barba appena rasata ed una nuova sciarpa scozzese a frange, saltava qua e là come un folletto, menando la ramazza dei piccioni sul selciato con la maestria di un pittore. Poi s’arrestò tutt’a un tratto, avvertendosi della nostra presenza. “Ecco, vi aspettavo! Ma che avete fatto tutto il giorno, niente?” ci guardammo l’un l’altro esterrefatti; il vecchio Selva sembrava un uragano in azione e sbuffava un unico pennacchio, come una locomotiva, da una narice arrossata. “Non sapete proprio niente? A casa non ha detto nessuno che domani è Natale?” Trasalii poiché ci avevo pensato tutto il giorno senza venire a capo di niente, ma nulla mi sgorgò dalle labbra. “Già” rabbrividì Lucio di fianco a me. Il vecchio selva mi guardò incredulo e, scuotendo la testa, riprese a pennellare le pietre. “Non si direbbe, non si direbbe proprio per niente” si disse quasi stupito. “Lo sa che se continua così consumerà tutte le pietre?” cercò di scherzare il mio amico “perché continua a spazzarle in quel modo, la neve mica le rovina” -Selva non reagiva- “e i piccioni dove sono, si spaventeranno.”

“I piccioni, già” si disse il vecchio Selva, e scoppiò in una muta risata sdentata. “I piccioni.” Si voltò all’improvviso. “Allora vi state domandando perché pulisco questo vecchio cortile scassato? Eh, ve lo domandate?” Ci guardava con un occhio chiuso, forse per mirarci meglio. 

“Sì” dissi allora, ed era la frase migliore che mis arei sognato di formare. Il vecchio Selva si avvicinò, abbandonando molle dietro di sé la ramazza di rametti, lasciando che qualche fiocco si sciogliesse in pace sulle pietre lustre. “Allora ve lo dirò; vedete questo piccolo cortile buio? Non ha nulla di stupendo, vero? E che succederebbe se non lo spalassi fino a domattina?” ci guardammo straniati e sicuri che il vecchio Selva fosse stato colpito alla testa da un piccione. “Che succederebbe se la neve se lo coprisse tutto e me lo nascondesse, a Natale? Non ve lo siete mai chiesti, eh? Beh, io sì.” Si voltò, dimenticandoci una volta per tutte e ricominciò a spazzare i fiocchi ormai ridotti a gelide gocce d’acqua. Fra le case bianche tutt’attorno, solo quella di Selva era ancora lei, rossa di mattoni ed un po’ pericolante, coi davanzali di marmo nero lustri come uno specchio dove si rifletteva il mio volto undicenne. 

Quella sera, a letto, ripensai affascinato a Selva e alle sue turbinose parole, allo specchio caldo dei davanzali ed ai volti attoniti che lo guardavano oltre le tiepide finestre appannate di aliti casalinghi. Mi sembrò improvvisamente di vedere attraverso i suoi occhi color ghiaccio mobili e parlanti come attraverso una finestra; di vedeva un lindo selciato che portava avanti oltre un portone rosso di vernice e poi c’era una banda gialla d’ottoni che suonava musiche già ascoltate con strumenti già uditi. D’un tratto percepii che l’indomani era un giorno necessariamente importante, attraverso gli occhi di Selva. Così m’aggrappai con le mani a quella finestra sforzandomi d’entrarci, e quando finalmente fui con tutto il corpo dall’altra parte mi addormentai, e il segreto di Natale fu salvo, pulsante oltre la cortina dei punti esclamativi dei regali sotto l’albero.

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