Rosalia Messina
A letto presto
ANNO 01 | NUMERO 01 | NOV 2022
Eva
La sera vado a letto presto. Mamma e papà dicono che i bambini devono dormire tanto e mi mandano nella mia cameretta alle nove e mezza. Il sabato mi lasciano giocare fino alle dieci. Dicono che a dieci anni potrò andare a dormire un’ora più tardi. Ci vogliono ancora due anni, uffa.
Io però resto sveglia. Appena dal piano di sotto non arriva più il rumore dei piatti che la mamma mette in lavastoviglie, mi alzo. Piano pianissimo, a piedi scalzi, esco nel corridoio e mi nascondo in un angolo che da giù non si vede. E ascolto. Certe volte stanno zitti e guardano la tv, allora dopo un po’ mi viene sonno e torno a letto. Ma altre volte parlano e sto a sentire tutto.
Sono brutta, io. Ho un occhio più chiuso dell’altro. Sono nata così e mio papà, un dottore di quelli che sistemano le cose con la chirurgia, dice che quando sarò più grande faremo un’operazione. Voglio essere bella ma ho paura di farmi operare. Un mio compagno di scuola, Mattia, ha avuto un mal di pancia fortissimo e l’hanno tagliato dove aveva dolore per levargli l’appendice. Papà mi ha spiegato cos’è ma io non ho capito bene, però ho fatto sì con la testa perché quando non capisco le cose i grandi fanno la faccia dispiaciuta.
Mattia dice che ha avuto tanta paura: gli hanno fatto molte punture, ma non ha sentito il taglio perché dormiva. E poi si è svegliato e aveva dolore ma i dottori glielo hanno fatto passare.
Certe volte sento papà e mamma che litigano. Parlano piano, ma capisco che non sono contenti. Forse è perché sono brutta, con l’occhio mezzo chiuso.
Sono brava a scuola e a casa mi comporto bene.
«È così quieta e buona, Eva» diceva l’altro giorno mia madre al telefono. Parlava con la zia Rita, sua sorella, che mi piace molto perché è allegra e mi fa ridere.
Ma se sono così quieta e buona, perché la mamma tempo fa le ha detto: beata te che non hai figli? Allora è per colpa mia che lei e papà litigano a bassa voce, la sera?
Certe volte invitano a cena amici senza bambini. Gli amici con figli vengono di domenica a pranzo. Non mi piacciono quei bambini: sono tutti belli, senza difetti. Però la mamma mi raccomanda di non fare l’orsa. E io cerco di farla contenta.
L’amico più simpatico, pure dottore, si chiama Leo. Lui c’è alle cene e pure ai pranzi della domenica. Mi chiama principessa e gioca con me.
«Ma tu non ti sposi?» gli ho chiesto una volta, mentre i bambini correvano e facevano baccano.
«Aspetto te! Quando cresci ti sposo» ha risposto. E si è messo a ridere.
A me non veniva tanto da ridere, però ho fatto finta. Sono bravissima a fare finta di ridere. Ho capito che la gente è contenta se uno scherzo piace.
Leo è bello e gentile. Quando sono sola e non so come giocare, invento una storia: Leo è mio marito e io lo aspetto, la sera, e non litighiamo mai.
Papà va spesso ai convegni. La mamma mi ha spiegato che sono come dei giorni di scuola per i grandi. Si riuniscono in un albergo e parlano di cose dei medici. Lei non ci va.
«Non ti voglio lasciare sola» mi ha spiegato.
Volevo dirle che qualche volta potrebbe venire la zia Rita a badare a me, mentre lei accompagna papà alla scuola dei grandi. Ma poi sono stata zitta. La mamma piange spesso, quando crede di non essere vista e io la spio dal mio angolino nascosto al piano di sopra. Magari, se le dico di far venire la zia, pensa che vorrei essere figlia della zia.
L’altra sera papà non c’era, era andato in un’altra città, non mi ricordo il nome.
Alle nove e mezza, come al solito, ero già nella mia stanzetta.
Dopo un po’, ho sentito il cancello che si apriva e il rumore di un motore. Papà è già tornato, ho pensato. Poi ho sentito le voci della mamma e di Leo. Il cuore mi batteva forte. Sono stata immobile e zitta. Ridevano. Poi hanno messo su una musica bella, senza parole.
Sono andata piano piano al mio posticino segreto. Da lì potevo vedere solo i vestiti della mamma sul tappeto.
Poi lei si è spostata e riuscivo vederla. Aveva addosso solo le mutandine. Ballava. Sentivo Leo che respirava forte.
«Cosa vuoi da me?» gli ha chiesto lei, con una voce strana.
Ha fatto qualche passo, ballando con le braccia alzate, e non l’ho più vista. Però adesso anche le mutandine erano sul tappeto.
L’ho sentita fare dei suoni strani. Li faceva pure Leo. Ho avuto paura: stanno male, pensavo. Ma non riuscivo a muovermi e a parlare, ero spaventatissima. Poi la mamma ha gridato, e anche Leo ha fatto una specie di grido.
Dopo un po’ di silenzio hanno cominciato a parlare sottovoce, non sentivo le parole.
Avevo freddo e sono tornata a letto.
Leo
Torno, stravolto, dal barbecue domenicale a casa di Dino e Olivia.
Lei e Rita si davano da fare in cucina mentre il padrone di casa conversava con tutti, passando da un gruppetto all’altro. Come sempre, mi sono offerto di occuparmi della grigliata e Dino ha protestato in modo molto blando: sono bastati un sorriso e un “figurati, lo faccio con piacere” per farlo tornare alle chiacchiere e ai drink, le sue specialità nelle occasioni conviviali.
Dopo pranzo mi sono sdraiato sul prato, discosto dagli altri. Stavo quasi per cedere al sonno quando mi sono sentito tirare la maglietta. Ho aperto malvolentieri gli occhi.
«Che fai, Leo?»
«Cercavo di dormire, Eva.»
Mi sono sforzato di sorriderle, per non mortificarla. È così sensibile, dice sua madre. Di sicuro è intelligente. E soffre per quella palpebra a mezz’asta, che cerca di nascondere offrendo il profilo agli sguardi. Fra qualche anno si potrà sistemare. I lineamenti e i capelli dorati sono come quelli, stupendi, di Olivia.
«Vieni a giocare con me?»
«Lascia in pace Leo, Eva» ha detto sua madre, dirigendosi verso la cucina. Quando parla alla piccola ha un tono che non si può definire aspro. Freddo, ecco. Distante.
«Tranquilla, mi fa piacere farle compagnia.»
Mi sono alzato sbadigliando.
«Andiamo, principessa.»
L’ho seguita su per le scale.
«Tira fuori i Lego, così costruiamo un bel castello. Oppure leggiamo insieme una fiaba. Io vado a sciacquarmi la faccia e arrivo.»
Al centro della stanza, danzava al ritmo di un motivetto che canticchiava a bocca chiusa. Innocente e seducente insieme, spostava con grazia il peso da una gamba all’altra; le braccine sottili ondeggiavano, sollevate al di sopra della testa. I capelli risplendevano alla luce ambrata del pomeriggio.
Indossava solo le mutandine: bianche a fiorellini rosa, con i fiocchetti sui fianchi.
Ero come ipnotizzato. Atterrito.
«Cosa vuoi da me?» ha chiesto, socchiudendo i poveri occhi disarmonici.
La perfetta imitazione del tono di Olivia mi ha tramortito.
«Vestiti subito. Io torno giù» ho balbettato.
Mentre scendevo le scale, il suo urlo mi ha trafitto i timpani e il cervello. Ho visto la mia vita franare e le macerie ricadermi sulla testa.
Sono fuggito in silenzio, scansando gli altri senza guardarli, senza sentire le loro domande.
Olivia
Mia sorella ebbe la presenza di spirito di congedare gli ospiti e portare la bambina a casa sua. Non so come, riuscì a calmarla: con la piccola è sempre stata più brava di me, ha la vocazione materna che a me manca. È davvero ingiusto che non abbia avuto figli.
Dopo la scena agghiacciante di Eva che in cima alle scale, mezza nuda, urlava “cosa vuoi da me, cosa vuoi da me?”, Dino altalenava fra mutismo cupo e grida.
«Io lo denuncio. Porco schifoso, lo rovino. Per questo non lo vediamo mai con una donna. Gli piacciono le bambine!»
«Calmati» gli ripetevo. «Non sappiamo cosa sia accaduto. È ancora presto per farci raccontare i fatti dalla bambina, è troppo scossa. E sarebbe giusto sentire anche lui.»
Poi, l’insistenza di Dino nel suo inutile soliloquio fece divampare la mia rabbia: per la sua cecità, per la prigione in cui vivevamo. Decisi in un attimo, come sempre. Come quando l’avevo sposato, stanca di aspettare che Leo si decidesse a lasciare la sua fidanzata di allora. Come quando, anni dopo, a una cena, tra altri colleghi di Dino vidi lui. Leo. Quella stessa sera, fumando una sigaretta sul balcone, ci demmo appuntamento nell’alberghetto dei nostri incontri clandestini di un tempo.
«Ho una storia con Leo. Da tre anni. La scena che Eva ha recitato così bene si è svolta qui, in questa stanza, mentre eri a Zurigo. È un nostro rituale: io ballo mezza nuda e gli chiedo “cosa vuoi da me?” La bambina ci avrà spiato. È innamorata di Leo e, sai, non è un angioletto asessuato: l’ha attirato su per sedurlo. Se vuoi prendertela con qualcuno, prenditela con me che le ho dato cattivi esempi.»
Mi fissò, annichilito. Aprì la bocca, ma ne uscì solo una sorta di rantolo.
«Comunque ti lascio. Tieniti pure la bambina. Se vuoi, fai uno scandalo. Non m’importa, non sono io il noto chirurgo e non ho nulla da perdere.»
«Troia» sibilò.
Preparai la valigia e andai via.
In fondo, avevo sempre avuto io le chiavi della prigione. Il divorzio fu elegante, a parte qualche insulto iniziale.
Da allora vivo con Leo.
Eva ha vent’anni e studia Ingegneria a Torino. La vedo poco io, la vede poco suo padre: lei e Rita si sono scelte.
Eva
Non mi sono operata alla palpebra.
Che mi frega? Vivo fra gente senza cuore dagli occhi perfetti ed essere amata non è tra le mie priorità.
I miei genitori non hanno mai parlato con me di cosa accadde quella domenica, dodici anni fa. All’inizio fui io a fasciarmi di silenzio e loro, vili, mi assecondarono.
Presero decisioni senza spiegarle, ma non serviva: mi era tutto chiaro. Nessuno obiettò, quando chiesi di stare con zia Rita.
Sono la figlia brutta, quieta, buona, che ha dato fastidio solo una volta, liberandoli.
Provo gusto a farmi mantenere. Chiedo il meglio in tutto ‒ casa, auto, studi, viaggi ‒ e loro pagano. Li vedo di rado; ogni tanto chiamo Leo, che è molto più umano e non ha colpe.
La zia, la mia vera famiglia, seppe allora, dalla mamma, come andarono i fatti. Ma un giorno ‒ avevo quindici anni ‒ sentii che dovevo tirare fuori quella cosa. Con le mie parole. Con la mia pena.
«Mi mandavano a dormire presto» cominciai. «E io mi nascondevo in un angolino e li spiavo. Una sera…»
«Potresti scriverci un libro» mi disse, quando tacqui. Mi abbracciò, e finalmente piansi.
Novembre 2022