Silvestro Lo Cascio

Cinema vietato ai minori di 18 anni

ANNO 01 | NUMERO 02 | DIC 2022

Rino era un uomo sulla cinquantina, alto, magro, scialbo, parlava a voce bassa e con gli occhi non guardava mai in faccia nessuno. D’estate portava sempre una camicia azzurra a maniche corte e dei larghi pantaloni con la piega di colore grigio che si fermavano sui suoi mocassini neri di pelle con le suola un poco interrate. Rino non urlava mai, nemmeno quando i ragazzi del quartiere lo prendevano per il culo. La sua voce era sempre impaurita e faceva fatica a uscire dalla sua bocca, per esempio, se entrava in un bar e chiedeva al barista un caffè, il rumore delle tazzine e il brusio della gente soffocavano la sua voce, e Rino doveva ripetere più volte «un caffè per favore!» e per farsi notare, generalmente puntava il dito in direzione della macchinetta del caffè fin quando il barista lo capiva, e così, finalmente poteva bere il suo caffè messo di lato nel bancone, si perché anche se al bar non c’era nessuno, Rino si metteva sempre nella parte laterale del bancone. Forse le sue parole non avevano mai rivendicato un posto nel mondo, parole che si sbiadivano con i rumori della città, del quartiere, e nessun discorso aveva mai ospitato quelle timide parole che si scioglievano insieme al sudore nell’estate afosa senza tempo. Rino con le parole non aveva mai accarezzato nessuna donna, utilizzava solo le parole della mamma e delle due sorelle per fare la spesa o ritirare i farmaci. La vita di Rino scorreva lenta dal lato dove gli alti palazzoni facevano ombra. Seguiva sempre il lato dell’ombra nel caldo umido dell’estate, girava l’angolo e non abbandonava mai quella striscia d’ombra. Al ritorno camminava quasi di sbieco al muro del palazzo fino a quando raggiungeva il portone, saliva due rampe di scale, tirava dai pantaloni il mazzo di chiavi, apriva la porta e restituiva quelle parole con la busta della spesa sperando di non aver dimenticato nessuna parola nel mercato, perché in caso contrario, parole piene di insulti lo obbligavano a uscire di nuovo per rimediare la dimenticanza. Giorno dopo giorno Rino accompagnava la sagoma dei palazzi, non si fermava con nessuno e abbassava lo sguardo se si sentiva osservato. Una vita in silenzio che scivolava via mentre le donne di casa, gli buttavano addosso bidoni d’immondizia stracolmi di bollette non pagate, di pianti disperati, di uomini lontani da onorare, di figli da partorire. Rino abitava la casa senza occupare nessuno spazio, senza parlare, senza respirare, mentre la vita difficile di quelle donne gli uccideva ogni spigolo di virilità. Dopo pranzo era il momento della giornata in cui Rino chiudeva un poco gli occhi stando seduto sulla sedia con le gambe distese dritte sul pavimento e con i piedi incrociati. Le donne di casa prendevano il caffè e le voci stracolme di lamentele non trovavano più parole d’apparecchiare sul tavolo, e al momento della sigaretta, i rumori dei piatti messi ad asciugare, iniziavano a scemare davanti al volume alto della televisione. Rino, come ogni pomeriggio, usciva di casa, seguiva la solita ombra, fino ad arrivare in una strada dove i negozi non c’erano più, dove c’erano solo portoni vecchi sbarrati e qualche gatto seduto sopra un bidone dell’immondizia, e dove una viuzza stretta si buttava in verticale lungo la strada principale, e dalla quale, si poteva intravedere una donna bionda scosciata che sedeva su una sedia, mentre con la mano agitava un elegante ventaglio fiorato. Rino si fermava, si guardava in giro per assicurarsi di non essere visto da nessuno, infilava le mani in tasca per prendere i soldi, che puntualmente si preparava prima di uscire, e quando il portone, con sopra l’insegna luminosa, apriva, lui era il primo a entrare. Pagava il biglietto senza guardare in viso la signora che stava alla cassa, iniziava a scendere le morbide scale di marmo, mentre gli occhi grandi e truccati delle attrici, che stavano in mostra nelle vecchie locandine appese ai muri, lo accompagnavano alla sala uno. Finalmente poteva aprire quella tenda rossa, e delicatamente l’accarezzava con la mano come fosse il fondoschiena di una bella signorina, annusava estasiato il solito odore di chiuso mischiato a quello della muffa che la sala magicamente sprigionava. Nel buio della sala raggiungeva il suo posto laterale della penultima fila. Dal suo posto osservava le file immobili delle poltrone che aspettavano impazienti i loro amanti misteriosi, sempre uguali e sempre gli stessi: un maschio effeminato che mendicava una sega a un uomo che sedeva in prima fila; un trans disposto a fare un servizio orale a un attempato signore che andava a pisciare nei bagni dei disabili; alcuni giovanotti che si davano per una stecca di sigarette da comprare; un militare che non pagava mai il biglietto; erano tutti seduti al solito posto, non mancava mai nessuno. Rino stava immobile e in silenzio, come ogni pomeriggio aspettava che finalmente nel buio della sala la magia si realizzasse: dal buio si alzava il sipario, sotto le gonne si scoprivano seducenti bianche gambe in reggicalze rigorosamente in nero, sbucavano da ogni parte grossi cazzi che penetravano le vagine pelose delle pornodive. Erano queste le donne di Rino, le conosceva tutte, le amava tutte, ogni giorno insieme ai peni eretti entrava dentro le vagine delle sue amanti, conosceva ogni angolo di quelle cavità, e mentre lo schizzo dello sperma veniva condiviso dalle bocche infuocate, i pantaloni di Rino si imbarazzavano per la macchia viscida vicino la cerniera. Rino ogni pomeriggio scopava con Moana Pozzi, si faceva fare un sesso orale da Cicciolina, partecipava disinibito alle gang bang con Milli D’abbraccio, godeva da matti a prendere da dietro l’affascinante Marina Lotar, ma la sua preferita rimaneva sempre Jessica Rizzo, quei capelli ricci e quelle tette enormi lo facevano impazzire, con lei faceva di tutto, quando c’era lei riusciva a guardare anche due volte il film. Nella sala buia gli orgasmi in dolby surround glielo facevano diventare subito duro e le poteva soddisfare tutte senza mai fare una cilecca. Prima della fine del secondo tempo, ovvero prima che accendevano le luci nella sala, Rino si alzava e con indifferenza usciva a testa bassa fuori, anche questa volta nessuno lo aveva visto, poteva ritornare a casa, sicuro che domani le sue amanti sarebbero state lì ad aspettarlo. 

A casa trovava la solita cena che non aveva scelto mai, come ogni sera Rino andava a dormire dopo i programmi che finivano alle 23,30 tra il borbottio delle sorelle che sottolineavano la sua inutilità nel mondo. Indossava il pigiama, andava in bagno per lavarsi i denti e per pisciare, in silenzio si recava nella sua stanza che stava tra la cucina e il soggiorno, si metteva nel suo scomodo lettino, si girava e rigirava da un lato e da un altro fin quando si addormentava. Quando si abbandonava al sonno, Rino finalmente incominciava a vivere davvero: ogni notte a turno, le sue amanti pornostar iniziavano a spogliarsi e a strisciare sul suo corpo con i caldi seni:

«sei molto bello Rino, scopami per favore, non resisto, mettimelo dentro»

Ogni notte Rino andava a letto con una donna diversa, le possedeva tutte, il suo pene era più grande e grosso di quello degli attori che di giorno gli rubavano le donne. Si sentiva amato e desiderato e quando arrivava Jessica Rizzo lui stava immobile sdraiato aspettando che lei aprisse le danze:

«Rino scopami davanti a tutti, guarda la mia figa com’è bagnata, la vuoi leccare??»

Jessica Rizzo ogni volta gli saliva di sopra e se lo infilava tutto dentro mentre Rino gli succhiava i seni. Lo sperma nella notte bagnava il letto e le sue ragazze facevano a gara per averlo in bocca. Ma ogni mattina Rino si svegliava da solo, le sue donne dopo aver scopato con lui andavano via, non rimanevano mica tutta la notte con lui! Dovevano rientrare a casa prima dell’alba, andavano via senza far nessun rumore per non svegliarlo. Lo lasciavano dormire fino a tardi, avvolto tra le lenzuola che sapevano di sperma e il rossetto sul cuscino. 

Ormai erano mesi che Rino faceva quella vita senza mai perdersi una serata, ma quella mattina qualcosa andò storto. Rino aspettava il pomeriggio per andare a trovare le sue amanti. Ma un imprevisto gli fece disdire l’appuntamento al cinema con le sue donne, quel giorno non poté andare, la sorella maggiore gli aveva chiesto un favore, se poteva accudire il figlioletto perché lei doveva lavorare. Rino non protestò, rimase in casa con il nipote, anzi si coricò con lui, e quando il bambino si addormentò, Rino osservava quel corpo liscio e senza peli, un corpo che stranamente non minacciava la sua virilità, ma il sogno venne interrotto dal pianto del bambino e dalle grida della sorella che lo malediceva. Rino aveva tradito le sue amanti che non avrebbero saputo mai dove sarebbe andato il loro uomo, quell’uomo che pensavano fosse speciale e diverso dagli altri uomini che le avevano ingannate. Quella voce si sparse in fretta nel quartiere, Rino non poté uscire di casa e rimase barricato dentro per salvarsi la pelle. Quell’ombra dei palazzi veniva spazzata via dal rumore minaccioso dei motorini dei ragazzi che cercavano di restituire onore al quartiere. Lo aspettavano sotto il portone per darlo in pasto ai pugni della vendetta. Rino rimase in casa senza parlare per una settimana, fino a quando le sirene di una gazzella portarono via quel seme nel cubiculo di una cella. Rino guardava sbalordito questo mondo minaccioso che si era accorto della sua presenza, a voce sempre bassa negava ogni accusa che gli piombava addosso. Pensava alle sue amanti che lo avrebbero aspettato e che potevano rimanere deluse dalla sua assenza.

Dicembre 2022

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