Samantha Mammarella

La banda della settima

ANNO 01 | NUMERO 02 | DIC 2022

Arturo prende la pistola di suo padre e se la ficca in tasca.
L’ha usata una volta soltanto, mirando a delle bottiglie di vetro in fila su un muretto di mattoni, senza riuscire a centrarne una.

Con l’arma che gli rimbalza sulla coscia a ogni passo e i capelli impomatati s’avvia in mezzo al buio della notte. Oltrepassa il ponticello sul fiume sentendo l’odore di sassi bagnati mescolarsi al profumo della sua pelle. La sagoma scura del mulino ad acqua si staglia contro il blu del cielo. Arturo accelera il passo guardandosi attorno, mentre la cena gli corre su e giù lungo lo sterno.

La sera prima suo fratello Peppino l’ha messo in guardia. «Ti spaccheranno le ossa una a una. Si muovono in gruppo, nascondendosi ai bordi delle strade. Sanno aspettare per ore senza fare un fiato. E non ti meneranno senza un motivo, per loro è una questione di rispetto. Lo faranno per principio, per tradizione. Useranno le mani, le cinghie dei pantaloni, la punta delle scarpe. Ti prenderanno a calci in culo fino a quando non li supplicherai di smetterla, giurandogli che quella è l’ultima volta che oltrepassi i confini».

«A casa non ci rimango!», aveva protestato Arturo.

«Quando tornerai tritato come il sale non mi venire a dire che non t’avevo avvertito»

«Non c’ho paura di quattro quaquaraquà»

«Quelli non fanno le chiacchiere, sono la banda della settima, organizzano la spedizione punitiva per tutti quelli che vanno a conquistare le femmine di un altro quartiere, invece che starsene buoni a casa loro».

A passo svelto Arturo taglia per i campi, non vuole rischiare. Si orienta con la luce delle stelle mentre le parole del fratello gli risuonano in testa come un cattivo presagio. Poi un rumore di catene vicino alla fornace gli paralizza le gambe. La mano scende rapida alla rivoltella.

«Fatevi avanti o sparo!», Arturo butta la voce in mezzo al vuoto dei campi. Suda dalle tempie e impugna la pistola con la mano destra. Si gira intorno e vede solo nero. Si sente preda minuscola in una vasca di squali. «Bastardi, guardate che non scherzo!». D’istinto esplode un colpo in aria, il braccio prende a tremargli come se un fulmine glielo avesse attraversato.

Poi il fruscio si fa più vicino. Stanno acquattati dietro il canneto, i maledetti.

Crack crack crack

Il rumore delle ossa rotte fa eco tra le sue orecchie prima del tempo. Si immagina su quel campo inchiodato a terra fino al mattino dopo, con le braccia aperte come un Cristo in croce oppure rannicchiato su sé stesso nel tentativo di parare i colpi.

«Andate via!», urla ancora, mentre il suono metallico di catene non smette di avvicinarsi. «L’avete voluto voi», punta la pistola contro il canneto e spara un secondo colpo, stavolta ad altezza uomo.

Un gemito prolungato taglia in due il silenzio del podere. Arturo fa un passo in avanti, sente le gambe di burro e l’acido risalirgli in gola. La pistola gli sembra qualcosa di troppo incandescente da trattenere tra le dita e la lascia scivolare a terra. Ha sedici anni e nessuna idea di cosa significhi veder morire qualcuno.

Cade in ginocchio e si guarda le mani vuote. La camicia se n’è uscita dai pantaloni mentre due cerchi scuri prendono spazio sotto le ascelle. Cosa ha fatto? Cosa? 

Di colpo si alza e prende a correre dal lato opposto mentre i fili d’erba gli s’incollano sul collo appiccicoso.

Mezz’ora dopo arriva nel quartiere di San Silvestro e la vede. Resta impalato sul marciapiede, coi capelli scombinati e i polpacci che gli pulsano ancora, e quasi si dimentica di essere un assassino.

Lei si chiama Angelina e ha quindici anni, occhi verderame e denti luccicanti, viso affilato e ciglia lunghissime. Si nascondono dietro il salice della piazza a parlare, seduti vicini su un gradino di pietra. Lui allunga le gambe e le sue scarpe arrivano a pochi centimetri dalle caviglie di lei. Si danno la mano, se la tengono stretta. Sono gli anni Trenta, se la madre di lei li vedesse la chiuderebbe in casa e butterebbe via la chiave.

Arturo è rimasto pallido per tutta la sera, sente qualcosa torcersi dentro. Le chiede s’è capace di tenere un segreto. Lei annuisce e ascolta tutta la storia senza fiatare. 

Quando sente gli occhi venarsi di crepe rosse, Arturo smette di parlare. Gli sembra che il silenzio sia colato tutto intorno, sui tetti delle case e sulla piazza.

Angelina fa un respiro profondo, si schiarisce la gola come se volesse dire qualcosa ma non dice nulla. Poi scatta in piedi, con la mano spolvera il vestito color carta da zucchero e si allontana in fretta. Lui resta solo dietro il salice, a respirare senza dire niente, a pensare che non la rivedrà più. Invece lei torna indietro, ha le pupille dilatate e la faccia di chi ha un guaio grosso da risolvere. Stringe in mano un bicchiere di vino rosso e lo allunga ad Arturo. Vuole accendergli quelle guance spente.

Passa un’ora e Arturo non si dà pace. Tiene un morto sulla coscienza, la testa annebbiata dall’alcool mandato giù a stomaco vuoto.

«E la pistola?», Angelina gli versa un altro bicchiere di vino. Arturo lo beve in un unico sorso, il pomo d’Adamo si muove su e giù al centro del collo, «L’ho buttata in mezzo alle frasche». Poi ripete più volte che lui non è un assassino.

«Devi andare a riprendere la rivoltella, Artù».

Lui fa di no con la testa, non la guarda più negli occhi.

«Invece devi andarci, e pure subito!», Angelina gli dà una spinta, «fallo per me». Sembra arrabbiata ma non lo è. Pensa solo che quella potrebbe essere l’ultima volta che si vedranno.

Sono le due del mattino quando Arturo lascia la piazza. La strada che di giorno è bianca e polverosa ora è una striscia nera, sembra la bocca di un camino pronta a inghiottirlo. Quando arriva all’altezza del campo, il ragazzo rallenta il passo ma non vede niente. La coscienza gli impone di andare a controllare se l’uomo a cui ha sparato sia ancora vivo. Invece tira dritto, non ce la fa a fermarsi. 

Corre verso casa e quando arriva è tutto spento. C’è una bottiglia d’acqua sul tavolo, Arturo ci si attacca come un neonato al seno di una madre, la bocca asciugata dal vino e dall’ansia. Poi entra in camera di Peppino, chiude la porta alle sue spalle. Per un attimo guarda in alto, sul soffitto ci sono i ganci per far scolare il sangue del maiale ma lui non li vede, con gli occhi rivolti al soffitto invoca l’aiuto della Madonna. La Madonna però non lo sente, nessuno può cancellare quel colpo di pistola, scorticargli dalla memoria l’accaduto. Allora il ragazzo accende il lume a cherosene sul mobiletto. Poi prende il fratello per le spalle, lo scuote forte.

«O, Peppì, Peppì…svegliati, ti prego!»

Peppino spalanca gli occhi di colpo, la faccia gonfia, la bocca impastata, «Che vuoi, Artù!»

«Shhhhhhh, abbassa la voce!»

Peppino sbatte più volte le palpebre per abituarsi alla luce, «Ma che ora sono?», punta il peso sui gomiti e si mette seduto, «mi dici che è successo?»

Arturo tiene la testa bassa, le mani che stringono le ginocchia quasi a volerle stritolare. Racconta tutto con un filo di voce, come se il rimorso gli avesse risucchiato un po’ di fiato dalla gola.

Peppino lo lascia parlare. Poi fa un respiro profondo e tira un pugno fortissimo contro la porta di legno, così forte che il legno si spacca e la mano si mette a sanguinare. «Fai sempre di coccia tua!», la voce raschiata dalle troppe sigarette.

«E mo che facciamo, Peppì?», Arturo alza la testa, ha gli occhi disperati.

«Dobbiamo tornare alla fornace, tiene ragione Angelina. Bisogna trovare la pistola prima che si fa giorno.»



I due fratelli escono di corsa al buio mentre l’umido della campagna gli entra sotto i vestiti. Peppino ha fatto in tempo a infilarsi solo le scarpe e i pantaloni. «Diamoci una mossa», dice col coltello in mano. Non sa se una volta arrivati alla fornace ci sarà bisogno di difendersi ancora.

Arturo invece cammina imbambolato, si sente tutte le ossa rotte. Che idea stupida, pensa, tornare sul luogo del delitto come fanno gli assassini. Ma lui un assassino vero non è, il ragazzo se lo ripete a ogni passo mentre s’acchiappa il labbro inferiore con i denti. Vorrebbe che Peppino gli facesse coraggio ma il fratello gli cammina accanto senza dire niente.

Quando arrivano sul posto non c’è nessuno, solo la fornace al centro della campagna. A sinistra il canneto, a destra il campo di girasoli. All’improvviso quel fazzoletto di terra appare ai loro occhi come un luogo insopportabile.

«Dove stavi quando hai sparato?», chiede secco Peppino. Non c’è tempo per piangersi addosso, ancora poche ore e sarà giorno.

Ma Arturo non lo sa, non si ricorda nemmeno il punto in cui ha abbandonato la pistola.

Così i due fratelli cercano la rivoltella nel buio con tutte le loro forze, la cercano per due ore. Se qualcuno filmasse la scena dall’alto, vedrebbe due puntini neri ruotare attorno a un quadrato scuro.

Sono le cinque di mattina quando Arturo da lontano fa il verso del gufo. È il segnale, lo stesso che usavano da bambini quando uno aveva bisogno dell’altro.

Peppino gli corre incontro, sudato come uno che crolla alla fine di una gara.

Arturo però non si muove, è in ginocchio, si preme una mano sul petto come se volesse reggersi il cuore, nell’altra stringe la pistola. Accanto a lui una striscia di sangue scuro punta in direzione del canneto.

Peppino lo tira per un braccio, «Alzati, non possiamo restare qua!».

«L’ho ucciso, l’ho ucciso», piange Arturo mentre sente le gambe che non gli rispondono a comando.

«T’ho detto alzati!», gli ripete il fratello, fino a farsi diventare grosse le vene del collo.

Arturo afferra la mano tesa di Peppino, gli passa la rivoltella. Ha la faccia bianca, sembra un fantasma insepolto.

«Aspettami qua», Peppino procede verso la striscia di sangue, lentamente, come quando ci si avvicina a un animale selvatico di cui non si ha fiducia. Poi a un certo punto anche lui si blocca. Un lamento al di là del canneto gli fa uscire gli occhi dalla faccia.

I due fratelli restano immobili, le orecchie tese verso il lamento. Arturo non parla più, ha le guance bagnate di lacrime ma ha smesso di piangere, sembra come gelato.

«È ancora vivo», sussurra piano Peppino. Il corpo deve essere vicino, il rantolio si sente appena, «Statti qua», insiste.

«Oh, che cazzo state facendo?», dall’altro lato del campo la voce di Ettore buca la quiete della campagna.

Peppino e Arturo si guardano negli occhi per un attimo, poi senza dirsi niente si infilano di corsa nel campo di girasoli, prendendo due direzioni opposte. L’adrenalina regala forza alle loro gambe mentre le urla del padrone della fornace si diffondono nel chiarore dell’alba, «Fermi, fermi, ladri maledetti!»

Ha una gamba difettosa Ettore, sa che non potrà mai raggiungerli per rompergli la schiena. Allora zoppica verso il canneto, controlla cosa gli hanno rubato quei due figli di puttana. Quando vede il sangue grida ancora più forte. Stesa accanto ai suoi piedi c’è Bianchina moribonda. Ha uno squarcio in mezzo al ventre e un pugno di mosche posate sugli angoli della bocca e sugli occhi. Non c’è nulla che Ettore possa fare per salvarla.

«Bastardi, me l’avete ammazzata! Povero me, povera mula mia!», il padrone della fornace urla accanto al corpo della bestia morente.

Arturo corre velocissimo in mezzo al giallo brillante dei girasoli, la camicia strappata e i denti dritti che gli luccicano in bocca. Nelle orecchie soltanto le parole di Ettore, maledizione e assoluzione insieme. All’improvviso non avverte più la stanchezza nelle gambe, né il sonno perduto.

Alla fine del campo suo fratello lo aspetta, i polpacci scorticati dai rovi di campagna. Sta facendo il verso del gufo, ma non cerca aiuto, tiene soltanto le braccia spalancate.

Dicembre 2022

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