matteo parmigiani

Collettivo di scrittura creativa

ANNO 01 | NUMERO 03 | GEN 2023

Gli affitti a Milano costano troppo. Soprattutto per uno studente all’ultimo anno di università, senza un euro in tasca. 

A quel tempo ero costretto a vivere con due coinquilini che non sopportavo. Uno era un prete mancato. Spesi i migliori anni in un seminario, Santa Madre Chiesa gli aveva detto a un certo punto di lasciar perdere. Disoccupato, passava il tempo a scassare le palle per i piatti sporchi nel lavello. 

     L’altro si spacciava per sommelier, ma in realtà faceva il cameriere in nero. Si portava sempre a casa bottiglie pregiate e sollazzava con assaggi e commenti da grande intenditore. «Beverino… minerale… colore paglierino…» 

Un incubo.   

     Così la sera, per non stare a sentire quei due, mi rintanavo in camera da letto e scrivevo racconti. Mi capitò sotto gli occhi il sito di una rivista online e provai a inviarne alcuni. 

     Non seppi più niente per settimane. Gli avranno fatto cagare, pensai. 

     Poi un bel giorno ricevetti una email: “Ci piace come scrivi, saremmo interessati a un piccolo editing e una pubblicazione nel prossimo numero della rivista. Ovviamente il tutto a titolo gratuito.”

     Risposi che accettavo e uno dei racconti venne pubblicato. Era la prima volta che appariva qualcosa di mio. 

     Lo leggemmo sì e no in tre. Io, il tipo della rivista e un’amica alla quale avevo talmente rotto l’anima che alla fine lo lesse più per sfinimento che per interesse reale. Poi ricaddi nel mio piccolo oblio quotidiano.

     Pensavo che la cosa fosse finita lì ma dopo un mese e mezzo quelli della rivista mi scrissero di nuovo. Mi invitavano a una serata che avevano organizzato non so per che motivo, alla quale partecipavano tutti i loro collaboratori. Incuriosito decisi di andarci. 

     La festa era in una specie di centro sociale, uno scantinato occupato, in fondo a viale Monza. Non nascondo che durante il tragitto in metro mi sentivo emozionato e perfino orgoglioso per l’invito. 

     Appena entrai mi accorsi subito che a nessuno fregava un cazzo del mio arrivo. Tantomeno del mio raccontino. Il posto era strapieno, c’era musica elettronica ad alto volume mentre proiettavano sul muro dei cartoni animati degli anni Trenta. Però c’era da bere gratis. 

     Raggiunsi il tavolo del buffet e chiesi un bianco. Il tipo dietro il tavolo mi versò del vino da pochi euro in un bicchiere di plastica. Di fianco a me una ragazza, sarà stata alta un metro e ottanta. Magrissima, capelli neri e mezza testa rasata. 

   Mi sentivo fissato così mi voltai, alzai lo sguardo e le sorrisi. Poi presi una manciata di patatine al formaggio e le infilai in bocca. Erano stantie. Le sputai in un tovagliolo e mi pulii le mani dalle briciole nei pantaloni. 

     Lei rise e prese un goccio dalla Ceres che stringeva. 

     «Scrivi anche tu?» le domandai. 

     «Non proprio… faccio foto dei particolari nascosti dei corpi umani» rispose con voce nasale e un vago accento romagnolo. «Però ho scritto un’opera teatrale.»

     «Addirittura?»    

     «Sì. Parla di una trasgender. Cioè… una figata di storia… c’è questa trasgender, appunto, che deve spiegare al fantasma della nonna morta cos’è il punk!» 

     «Ah.»

     «Megabello!» Gli occhi le si assottigliarono e mi mostrò un sorriso contratto che ricordava il muso di un cavallo. 

     «Davvero» dissi.

     «Sono sempre stata creativa.»

     Un ragazzo sbucò da dietro e s’infilò tra noi. Era più basso di me, indossava una camicia hawaiana azzurrina e aveva un paio di baffi alla Dalí, con un ridicolo ricciolo sulle punte. Lei si chinò come una giraffa che lecca il suo piccolo e lo baciò. Limonarono per qualche secondo. Non sapevo bene cosa fare così mi guardai intorno. 

     I due erano fidanzati e mi domandai come facessero a scopare, vista la differenza di statura. 

     «Ciao.» Staccò la bocca dalla tipa e mi porse la mano. «Sono Alain.»

     «Matteo.» Gliela strinsi. «Che fai di bello?» domandai sapendo che presto mi sarei pentito d’averlo fatto.

     «Ho scritto due romanzi, autopubblicati, e ho appena finito il soggetto per una serie tv. Il mio agente dice che ci sono buone probabilità, conosce uno che lavora in Rai che gli ha detto che secondo lui ho talento. Tu? Scrittore?»

     «Be, io… oddio, scrittore… qualcosa.»

     «Con quella faccia?» Si voltò verso la sua ragazza e risero. «Scherzo» disse tornando a me. «Cos’hai pubblicato?»

     «Niente.»

     «Dai, vedrai che ce la farai.» Mi picchiò la mano sulla spalla quasi volesse consolarmi. 

     La ragazza prese una canna e la accese. «Vuoi?» me la offrì.

     «No, grazie.»

     Una nuvola di fumo dal sentore di rosmarino si alzò tra noi. Non sapevo se mi infastidiva di più la musica, la cannabis che ci avvolgeva o il coglione lì davanti.

Poggiai il bicchiere, sorrisi ai due creativi e mi diressi al bagno. Si trattava di uno stanzino buio con una luce al neon blu che cadeva dal soffitto. Le pareti erano piene di cazzi disegnati, massime filosofiche e numeri di telefono. Mentre mi sbottonavo la patta vidi per terra un assorbente usato, gonfio di grumi di sangue secco e peli. La cosa mi diede il voltastomaco. Abbandonai il cesso e uscii dallo scantinato in cerca di un angolo di pace dove pisciare. 

     Nascosto dietro una macchina, annacquai il marciapiede. Tirata su la cerniera, mi voltai verso la festa. Potevo sentire le casse che tuonavano musica. Una ragazza ubriaca barcollò davanti all’ingresso. Due amiche la raggiunsero e lei si girò bestemmiando. Poi si sedette per terra e accese una sigaretta. 

     «Sei una merda!» urlò in direzione dell’ingresso.

     «Non fare così.» L’amica le carezzò i capelli. «Non ti merita.»

     La ragazza ubriaca scoppiò in lacrime.

     Decisi che non ero ancora pronto per diventare creativo come loro, mi voltai e m’incamminai senza una meta precisa. Così, per fare due passi.

Era una sera d’inizio primavera, faceva ancora frescolino ma il cielo era limpido, puro. E l’aria leggera.  

   Cammina che ti cammina, raggiunsi, dopo più di un’ora, il “Bar del Capolinea” davanti all’ospedale Niguarda. Non è proprio un chiosco, prima era la sala d’attesa dei tram. Adesso servivano bianchi da acidità di stomaco e piadine al prosciutto sudato.

     Lì c’erano due tizi. Uno beveva Lemonsoda poggiato al davanzale della finestrella dalla quale servivano. Aveva la divisa dei controllori Atm e la faccia da orsetto avvinazzato. Due occhietti piccoli, persi chissà dove. 

     L’altro era una guardia dell’Ivri. La testa piena di gel e una nuvola di deodorante Axe. 

     Parlottavano tra loro. 

     Li superai e chiesi un bianchino.

     «Uno e cinquanta.» Il barista me lo porse e pagai. Bevvi un sorso e mi accorsi che i due mi lumavano. «Salute» dissi. 

      Ivri annuì col fare di chi la sa lunga. «Te?»

     «Io, cosa?»

     «Da dove vieni?»

     «Da nessuna parte.»

     «Lo vedi lui?» m’indicò Atm. Aveva la faccia paonazza e lanciava occhiate ebeti alla strada. 

     «Non parla?» domandai finendo il vino.

     «Oggi è il suo compleanno» Ivri assunse un tono confidenziale. «Però è triste, nessuna lo vuole chiavare.»

     «Te credo.»

     Atm ridacchiò e si grattò il culo.

     «Altro vino?» mi chiese Ivri. 

     «Perché no?»

     «Perfetto» urlò poi. «Altro giro, offre l’Osvaldo» fece al barista indicando l’amico Atm che sembrava sotto anestesia. 

     Comparvero tre sambuche. 

     «Alla goccia» intimò Ivri e buttò giù.

     Buttai giù anche io.

     Osvaldo dell’Atm no. Lui sorseggiava.

     «Dai, butta giù» lo incalzò Ivri. 

     «Seeh seeh.» Finì la sambuca e posò il bicchiere. 

     «Altro giro!»

     Il barista ci servì e scolammo la seconda. 

     Ivri accese una sigaretta e chiamò il terzo. 

     «Sentite» dissi. «La compagnia è bella, ma s’è fatta na certa.»

     «Ma è il suo compleanno» lamentò Ivri. «Dai, resta con noi.»

     «Vabbè, l’ultimo però.»

     Tracannammo altre cinque Sambuche. Ogni volta che li salutavo e facevo per andarmene Ivri mi fermava insistente. La testa iniziò a girare come un pallone a San Siro e i riflessi si fecero lenti, pesanti. 

     «Questi studenti» sentivo Ivri parlare con l’altro coglione. «Non reggono niente.» Le loro voci provenivano da lontano e vibravano perdendosi. Come se mi parlassero dal fondo di una piscina. 

     Dovevo aver messo il piede male perché a un certo punto persi l’equilibrio. Ivri mi prese al volo e ci trovammo abbracciati. «Occhio, eh!» M’aiutò a raddrizzarmi e tutta la Sambuca venne su. 

     Barcollai poco lontano e vomitai schizzandomi la punta delle scarpe. Presi fiato ma sapevo che non era finita. Il secondo conato fu più violento. Sentivo i polsi tremare e dei martelli che picchiavano le tempie. Cominciai a sudare e gli occhi si annacquarono. Buttai fuori altra merda e maledissi la Sambuca e chi l’aveva inventata. Sputacchiai delle gocce di saliva e inspirai l’aria della sera. 

     Quando tornai al chiostro i due non c’erano più.

     «Andati?» domandai al barista che si limitò a un cenno. «Un’acqua gasata.»

     «Le consumazioni? Chi le paga?»

     «Ah, non…»

     «No!» tuonò da dietro il banco. Da come mi fissava sembrava appena uscito dal girone degli incazzati. 

     Rassegnato portai la mano alla tasca dove tenevo il portafogli ma non ci trovai niente. «Cristo!» Ivri doveva avermelo sfilato mentre mi teneva in piedi. 

     L’uomo mandò giù aria. «Cominciano a girarmi» minacciò.

    «Dove sono andati quei due stronzi?»

    «Che ne so io? Allora, paghi?»

    «Mi hanno…»

    «Senti, hai rotto. Paga.»

    «Può chiamare la polizia?»

     «’orcodio!» Con uno scatto l’uomo si tolse il grembiule e lo buttò a terra. Poi sparì nel retro e sentii la serratura della porta che girava. 

     Questo mi ammazza, pensai. 

     Infilai la porta e cominciai a correre come un matto. Attraversai la strada e presi viale Ca’ Granda. 

     Il barista mi venne dietro e per un pezzo sentii il suo fiato che mi azzannava la schiena. Poi lo seminai. 

    Raggiunsi viale Fulvio Testi e mi poggiai a un muro nel tentativo di rallentare i battiti del cuore.  

     Una volta tranquillizzato mi trascinai dai carabinieri. Se denunciavo subito magari avevo più speranze che ritrovassero il pezzo di merda. 

     Saranno state le due di notte quando arrivai all’ingresso della caserma più vicina. Era chiuso così mi attaccai al citofono.

     Un piantone venne ad aprirmi dopo dieci minuti. «Cosa vuoi?» Avrà avuto cinquant’anni. 

     «Devo denunciare un furto.»

     «Proprio adesso?»

     «È avvenuto circa un’ora fa.»

     L’appuntato si guardò intorno, ci pensò su un attimo e poi mi fece entrare. 

     Mi scortò nel corridoio dove c’era una panca color ruggine. «Aspetta qui. Ti chiameremo» disse. Poi sparì in fondo al corridoio. 

     Poggiai le chiappe sul ferro gelato. Tutt’intorno puzza di spogliatoio e muffa. Ogni tanto sentivo degli sbadigli e delle ante che si aprivano. Non so quanto passò ma presto la testa divenne pesante. Mi sdraiai sulla panca e sprofondai nel sonno. 

     Furono le voci di due uomini a riportarmi nel mondo dei vivi. 

     «Hai sentito ieri notte» diceva uno. Era in borghese e parlava col compagno in divisa. Raggiunsero il distributore di caffè e si fermarono lì davanti. 

     «Parli della retata?»

     Mi rimisi a sedere e cercai di mettere a fuoco quello che avevo intorno. La bocca impastata del puzzo acre di quel posto, polvere e odore d’archivio. 

     «Un vicino ha chiamato lamentandosi del casino. L’ha presa Claudio la chiamata. Sono entrati in quel centro sociale in fondo a viale Monza e non ti dico cos’hanno trovato. Chili di marja, salvia divinorum…»

«Che era? N’a serra?»

Risero. 

     «Zucchero?»

     «No, grazie.»

     «Un bel colpo.» L’uomo in borghese infilò le monete. «Pensa che si sono identificati come associazione culturale.»

     «Quanti fermi han fatto?»

     Dalla macchinetta scese la colata di liquido nero. 

     «Quattro, tutti incensurati. Giovani, creativi. Un bel processo per direttissima e vedi come gli passa la voglia a quelli.»

     Il tipo in divisa prese il bicchiere e bevve.

     «Avrei voluto beccarla io la chiamata, credimi.»

     Mi stirai le braccia e scrocchiai le ossa della schiena. 

     I due cominciarono a fissarmi.

     «Aspetta qualcuno?» mi domandò quello in borghese. Doveva essere un ufficiale o comunque il capo di qualcosa. 

    «No, io…»

    «Cosa ci fa qui?»

    «Avevo una denuncia da fare ma devo essermi addormentato.»

     A quello in divisa scappò un sorrisetto. 

     L’altro lo fulminò con lo sguardo. Poi tornò a me. «Che denuncia?»

     «Il portafoglio, me lo hanno rubato.»

     «Ah.» Mi squadrò ancora per qualche secondo poi aggiunse: «Beh, l’ufficio per le denunce è in fondo a destra. Lì ci sarà un appuntato.»

     Annuii.

     «Sì, ma vada ora. Non può stare qui.»

     Mi stropicciai la faccia e feci quello che mi diceva quel tale. Avevo già fatto incazzare troppa gente quella sera. 

     Tornai all’ingresso e vidi che nel frattempo il sole era sorto. Aprii la porta e chiesi dell’appuntato. 

     «Vada fuori!» strepitò un tipo da dietro la scrivania.

     «Ma devo fare una denuncia.»

     «La chiameremo. Adesso fuori.»

     Sedetti sulla panca lì di fianco. Anche quella era fredda e color ruggine. Aspettai quasi un’ora. Alla fine ero esausto e decisi di lasciar perdere, dopotutto non avevo che pochi euro. L’unica rottura era la patente. 

     Vaffanculo, pensai. Ci sarà tempo.

    Mi alzai e mi diressi in fondo al corridoio. Girai l’angolo e trovai Alain, seduto su un’altra panca. Aria da cane bastonato. 

Coglione, pensai. Mi avvicinai e gli toccai la spalla. «Coraggio» dissi. «Vedrai che ce la farai» sorrisi. 

Mi fissò con aria atterrita.

Lasciatolo ai suoi guai tornai all’appartamento che erano le sette e mezza. Rientrando svegliai il coinquilino rompicoglioni, il prete mancato. 

     Mi insultò ma non ci feci caso. 

   Entrai in camera, poggiai la testa sul cuscino e non ci pensai più. Due settimane dopo cominciai a preparare la tesi. 

Gennaio 2023

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