FRANCESCA COPPOLA​

A Donnadolce non accade mai niente

ANNO 01 | NUMERO 04 | FEB 2023

Era già bello e spiaccicato sulla strada. C’era un ragazzo con la felpa rossa che inveiva, comunque, sul corpo del cane.  Ho visto crescere sopra dei funghi. Questi si ingigantivano e poi la testa del ragazzo prendeva uguale forma.

Drin, driin, driiin la sveglia suona. Da quando Oliver è morto faccio sempre lo stesso sogno del cazzo! Poi mi alzo e tutti i miei pensieri girano attorno ad unico nome: Donnadolce, il paese natio di mia madre. Quando litigava col babbo era facile sentirla pronunciare parole indecifrabili, per poi finire con la stessa frase scandita in modo da renderla ancora più chiara: “che voglia di tornare a Donnadolce dove non accade mai niente”.

Così questo nome si è trapiantato nella mia mente un po’ come mia madre si è trapiantata a Parma.

Ho sempre avuto un rapporto freddo con questa città. Ci sono nata eppure non l’ho mai sentita mia. Ho iniziato a credere allora che l’amore non avrebbe dovuto far trasferire la mia famiglia. Forse anche io sarei voluta nascere a Donnadolce.  Conoscerla mi avrebbe aiutato a capire il motivo per cui l’aveva abbandonata  per poi sceglierla, anni dopo come rifugio. Lo aveva deciso un Natale. Indossava qualcosa di rosso l’ultima volta che l’ho vista. Rosso come il vomito di Oliver poco prima di sbattere al suolo.

Avevo preparato una crocetta di legno con le stecche del gelato ma mio padre non ha voluto portarla con sé  quando, con mio zio, lo hanno avvolto in un lenzuolo e caricato in macchina. Diceva che avrebbe attirato troppo l’attenzione nel luogo in cui lo avrebbero seppellito clandestinamente. Perché incenerirlo costava quanto una vacanza al sud e trovargli un posto nel cimitero dei cani e dei gatti era impossibile visto che manco per gli uomini era impresa semplice. Io sono rimasta con la crocetta fra le mani e l’ho girata e rigirata fino a romperla e qualche scheggia si è fermata nella pelle. Oliver aveva più o meno la mia età solo che a lui era toccata una sorte migliore.

Aveva appena due mesi, quando con i miei genitori si è trasferito qui. Lui sì che era stato fortunato: aveva conosciuto, anche se per poco, quella città dal nome così strano. Qualche volta, nei tempi in cui non volavano bottiglie, ho sentito mia madre raccontare a mio padre delle sedute spiritiche fatte con le sue amiche, di nascosto, sul peschereccio. Allora ho capito che Donnadolce non doveva essere poi un posto così noioso. E ho cercato di saperne di più. Ho imparato a usare un cacciavite al posto della chiave per aprire i diari di mia madre e le cose che ho letto hanno trapanato buchi fantasiosi nella mia mente. Si narra di una medium e di una seduta spiritica. La sensitiva si sistemava in un lettino con al fianco una bambola di pezza.  – Lei è Maddalena-  diceva, sua figlia. Spiegava che la bambina era scomparsa all’età di sette anni e da allora si era reincarnata nel pupazzo.  La donna girava il fantoccio dalla sua parte e iniziava l’esorcismo. – Era indispensabile- sosteneva,  doveva incanalare le sue energie. Mia madre racconta della canzone intonata a bassa voce, versava nella bocca della bambola un bicchiere di vino e la accarezzava. 

Alla fine della litania si alzavano e mimavano un inchino. C’era scritto: “Non siamo inventori di niente. È tutto un continuo riciclo”.

 Da quel momento sul diario vengono riportati ciclicamente costo e descrizione di vari oggetti. Mia madre collezionava cose strane. Per lo più in ceramica e di uso comune come brocche o tazze. Li aveva comprati ai mercatini, che negli anni aveva frequentato, in varie zone d’Italia. Su tutti risaltava un maialino. Aveva un foro sul dorso, un ghigno al posto delle labbra e occhi stretti stretti.

La immaginavo mentre li spolverava o li sistemava a seconda del colore o della forma. Quanto tempo aveva impiegato per annotare i dettagli pronunciati di quelle scemenze? Quanta dedizione per oggetti freddi? Così ho iniziato dalla tazza rossa, l’ho lanciata contro il muro poi quella verde, le brocche orrende con i musi di rana, le tazzine schiacciate con la coda lucertola. Non ero ancora soddisfatta, ho deciso di calpestare con forza i cocci. Mi sono fermata: era rimasto solo il maialino, doveva essere, con ogni probabilità, un salvadanaio. Ho ficcato l’occhio nell’apertura, non c’era niente dentro così, mi ha fatto pena e l’ho abbracciato: avevamo un vuoto da condividere.

Febbraio 2023

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