Stava appeso, preso per il collo, non faceva una piega: sempre ordinato.
Un giubbotto viveva appeso. A peso. Perché sì, pesava: pensava di essere una bilancia.
Il giubbotto non si firmava mai: non aveva marca, e non aveva un nome.
E non esisteva: avere un nome era come contornarsi.
Il giubbotto era una paradosso: senza piega, sempre perfetto, faticava ad uscire dai suoi contorni. Eppure, non aveva un nome.
Come poteva avere dei contorni senza nominarsi?
Ed allora si scoprì ladro: rubò l’identità della bilancia.
Ma che fatica pesare.
Un giorno, sempre per la sua professione mal riconosciuta di ladro, decise di rubare, dall’alfabeto, una consonante: la n.
Con quella, al verbo che, nel suo caso, corrispondeva all’azione, il pesare, fece spazio tra la lettera E e la S. Ed ecco che, il nostro giubbotto, coraggiosamente, cambiò comportamento: niente pesare. Solo pensare.
Ed iniziò a coniugare il verbo in ogni sua sfaccettatura.
Il giubbotto non pesava più: pensava. Il pensare, poi, assunse la coloritura del vivere. Imparò a declinare, non le offerte, ma la vita.