thomas lehn
Difetto
ANNO 01 | NUMERO 06 | APR 2023
Luigi si accarezzò la cicatrice che, dal gomito, gli divideva il dosso morbido e appena accennato del tricipite. Non riusciva a vederla, ma in quella leggera cavità della pelle era inciampato ripetutamente negli ultimi mesi. Come nel gradino all’ingresso dell’ospedale, che dimenticava sempre di notare dopo le visite a sua madre; il giorno dopo gliene parlava, come una cosa buffa che potesse farla ridere, poi si metteva a raccontarle altro e, uscendo, coi pensieri rivolti ancora a lei, avvertiva il vuoto sotto il piede troppo tardi.
Si alzò, scrollò i pantaloni arrotolati fino al polpaccio e tornò sui propri passi, che il vento aveva già cancellato dalla sabbia. Il mare continuava a gonfiarsi alle sue spalle, ma i suoi boati di rabbia e l’urgenza con cui le onde si schiantavano sulla spiaggia lentamente si allontanarono. Luigi puntò lo sguardo verso le cime degli alberi che, davanti a lui e pieni di foglie di un primo verde, ondeggiavano. Attraversando quel piccolo bosco, poco prima, i polmoni si erano riempiti di profumi primaverili. E gli era tornata in mente, d’un colpo, la sensazione di certe serate in cui era in giro con sua madre, lei in bici e lui in pattini forse, non ricordava, e li investiva un odore di alberi in fiore, tigli probabilmente. Sua madre allora si fermava, alzava la testa, lasciando ricadere la massa di capelli castani all’indietro, e cercava di capire da dove venisse quel profumo che le stuzzicava piacevolmente le narici.
Un granello di sabbia nell’occhio lo costrinse ad abbandonare il ricordo e a fermarsi. Quando ritornò con lo sguardo verso gli alberi, notò che sulla strada che fiancheggiava il bosco si muoveva lentamente un furgone rosso. Luigi non riusciva a distinguere chi fosse alla guida, ma ebbe l’impressione che il mezzo avesse ridotto la marcia, procedendo con lentezza per incrociare i suoi passi.
– Non ero sicuro fossi tu, – la mano di un uomo lo salutò dal finestrino abbassato.
Luigi riconobbe nei tratti floridi un amico di famiglia, qualcuno che appariva sporadicamente nei suoi ricordi d’infanzia senza avere un’identità precisa. Discretamente, era apparso anche al funerale due settimane prima, ma allora Luigi non ne aveva notato la grossa stazza, che ora lo faceva sembrare un gigante nel ristretto abitacolo del furgone.
– Ho visto un bel giovanotto che passeggiava sulla spiaggia e mi sono chiesto chi potesse essere, – continuò l’uomo prendendogli la mano per salutarlo. – La vita universitaria ti ha cambiato. In meglio intendo. C’è qualcosa nel portamento, e nello sguardo.
– Grazie, – Luigi pronunciò la parola goffamente, ripensando alla sua immagine bassa e gracile riflessa nello specchio; nell’ultimo anno aveva anche perso i capelli.
– Dev’essere bello vivere in una città dove non ti conosce nessuno, – incalzò l’uomo con occhi spalancati e bui; si tratteneva indietro, nella zona d’ombra dell’abitacolo, e continuava a stringergli la mano, come se volesse strappargliela a morsi.
– Ogni tanto, però, casa ti manca.
– Mi dispiace per tua madre, – disse l’uomo. – Era una brava donna.
– Mm, – la testa di Luigi scattò di lato, cercando il vento del mare.
– Non parlava molto, la pensavi debole. Ma io credo fosse forte, sapeva come gestire tuo padre.
– Mio padre ha i suoi momenti, – sentì il bisogno di giustificarlo Luigi.
– Non dico che è cattivo, – l’uomo ebbe un sussulto e avvicinò a sé la mano del ragazzo. – È così che si cresce qui, con una mentalità vecchia. – Abbassò lo sguardo sulle vene che si gonfiavano sul dorso e, senza mollare la presa, cercò di grattare via la calce che gli si era seccata sulla pelle. Espirò velocemente, un alito di birra, quindi rialzò gli occhi sul viso giovane che voleva trattenere. – Se sei un po’ diverso, diventi il fesso del paese. O peggio ancora ti evitano, ti guardano con schifo. Ti pensano in difetto. – Si interruppe di nuovo, notando che le sopracciglia morbide del suo interlocutore si incurvavano verso la perplessità. – Non io, cioè, dico in generale, come quell’albanese in cantiere, che fa il musulmano. Non siamo tutti liberi. Liberi veramente. A volte ti fai una seconda vita, nascosta. Vivi in segreto, insomma, ti cerchi un angolino tuo che nessuno conosce. Non come un assassino, per carità. Un ricercato sbagliato, ecco, uno che non ha fatto niente ma comunque gli danno la caccia.
– O un innocente sbagliato, qualcuno che in realtà è un assassino ma la gente pensa sia stato un incidente.
– Ma magari è stato un incidente, o un caso. Cioè, non tutti scegliamo… – l’uomo non era sicuro di cosa stessero parlando e si interruppe, quindi inseguì un altro pensiero. – Poi cominci ad avere paura della tua stessa ombra se dici una cosa fuori luogo, se il tuo sguardo fissa qualcuno troppo a lungo. Scommetto che a Roma non è così.
– Certe cose non te le scrolli di dosso neanche in città, – commentò Luigi, cercando di divincolare la mano liscia da quella callosa dell’uomo.
– Già, già, – riprese quello mantenendo saldamente la presa. – Ma è diverso, non ti conoscono. Qui basta una distrazione.
Luigi pensò che era vero, che in una grande città la colpa non ti sta attaccata come un bersaglio sulla schiena, puoi camminare nella folla senza distinguerti, andando per la tua strada, inseguendo i tuoi pensieri in metropolitana, e poi fuori, a casa di chi non ti vuole più, ma ti ha chiamato per restituirti un maglione, e tu pensavi fosse altro, appena hai visto il nome volevi rispondere subito e ti sei distratto.
– Non l’ho fatto apposta, – sussurrò.
– Come?
– Papà ci aspettava, era tardi, a Ferragosto stanno tutti in spiaggia, pensavo…
– Io non-
– Io dovrei andare, – cercò di districarsi Luigi.
– Certo, certo, ti lascio andare, ma mi ha fatto piacere incontrarti. – L’uomo disse le parole frettolosamente e poi tacque, senza però lasciare la mano. I suoi palmi cominciarono a sudare. – Senti, ecco, non so, se ti va possiamo bere una birretta una sera, in nome di tua madre. Se hai voglia di parlare con qualcuno, ecco. Puoi venire a casa mia, se vuoi, così stiamo tranquilli.
– Grazie, – rispose Luigi per educazione, – ma non so… non so quanto mi trattengo qui, ci sono le scartoffie, e mio padre che ha perso la testa, non credo…
– Certo, certo, capisco, – disse l’uomo sorridendo, negli occhi lo sguardo di un cane in gabbia che aveva scodinzolato invano. Continuava ad aggrapparsi alla mano di Luigi. – Io comunque sono Gerardo, magari non ti ricordi neanche come mi chiamo. Però se trovi il tempo fammelo sapere, ti do il mio numero di telefono.
L’uomo lasciò la mano di Luigi, si piegò verso il cruscotto, frugò cercando una penna, poi estrasse un foglietto, una ricevuta stropicciata, e sul retro scrisse una fila di numeri. Li controllò un paio di volte, ripassando ogni tanto l’inchiostro di quelli che non gli sembravano abbastanza leggibili, quindi porse il foglietto al ragazzo.
– Si legge? – disse non riuscendo a trattenere un riso infantile. – Non ero bravo a scuola.
– Sì, – confermò Luigi senza prestare troppa attenzione a quello che c’era scritto.
– Ti serve un passaggio? – provò a trattenerlo l’uomo. – Dove stai andando?
– No, ho la bici di là, – ringraziò Luigi facendo un cenno esile verso il bosco.
Si sentì un suono di clacson e i due si voltarono nella direzione da cui proveniva. Una macchina nera si stava avvicinando con velocità. L’uomo si morse il labbro inferiore, di lato, quindi si avventò sulla chiave e riaccese il motore del furgone.
– Chiamami, dai, – si affrettò a dire, e partì alzando un polverone sulla strada.
Luigi lo guardò allontanarsi. Non a lungo, qualcosa gli era nuovamente entrato negli occhi, costringendolo a lacrimare. Quando li riaprì il puntino rosso non c’era più, sparito, come se fosse caduto in un fosso al margine della strada. Luigi ripensò a quella breve vibrazione, alla telefonata che avrebbe dovuto essere importante, alla macchina che non smetteva di rivoltarsi, al vetro che gli strappava la carne, alla mano sinistra di sua madre che teneva la cintura infilata nell’ancoraggio difettoso.
Aprile 2023