Antonio Giugliano

Lei

ANNO 01 | NUMERO 07 | MAG 2023

“Ciao, stronzo!” 
“Tu?”

Era lei. Ero io. Ma non sapevamo chi eravamo diventati, venti anni dopo i nostri vent’anni.

Andiamo a prenderci un caffè in un locale con i tavolini dietro una vetrata blu scuro e subito dopo finiamo in macchina a cercare un posto isolato.

Ho trovato un anfratto in una strada di campagna, però lei non si sente sicura, ha fretta, vuole farmi una sega ma a me non basta, tuttavia fingo di acconsentire e invece quando sto a buon punto le appoggio la mano sulla nuca e spingo la sua testa verso il mio cazzo. Sono infoiato, lei apre la bocca e incomincia a succhiare. E io continuo a tenere la mano sulla nuca, però senza spingere anzi le accarezzo i capelli, solo per farle capire che non deve smettere. 

“Ah, bella, così….”

Quando arrivo apre lo sportello e sputa lo sperma fuori dalla macchina. Le do un paio di fazzoletti di carta. 

“Stronzo, ma che volevi farmi soffocare?”
“Scusa”.
“Mi hai trattato come una puttana”.
“Ti ho chiesto scusa”.

In realtà non me ne frega niente. Un’altra cosa andata che non tornerà mai più.

 “Mio marito mi aspetta”.

L’accompagno alla sua macchina mentre mi racconta che s’è sposata da sedici anni e ha due figlie, una di quindici e una di sei anni; che fa la casalinga e le piace così, che il marito è innamoratissimo e si fida ciecamente e infine che gli vuole bene. Come no, si vede proprio. Tira fuori la lingua e con le dita si toglie un pelo. 

Le do un altro fazzolettino e si pulisce le dita con nonchalance. Lo posa sul cruscotto.

“E tu? Ti sei sposato?”
Sono felicemente divorziato, senza figli.
Ti manca, non avere figli?.
Forse un po’ sì, adesso.
I figli sono importanti. Non sai quanto.

Non rispondo. Le dovrei dire la verità, e cioè che non sono capace di badare nemmeno a me stesso figuriamoci a un figlio. Ma non le piacerebbe. E poi bisogna essere in due. 

Ci salutiamo senza un bacio; solo un leggero cenno nello sguardo quando attraversa la strada.

Mi ha dato il suo numero e io le ho fatto uno squillo con il mio telefono, ma nessuna promessa. Io certo non la chiamo, poco ma sicuro.

Dopo due settimane, un giovedì mattina, mi telefona. Sta a Santa Marinella.

“Ma che cazzo ci fai, là?”
“Io vivo qui. Te lo dissi, non ti ricordi?”
“Ah, sì”.
“Mi annoio”.
“E perché non vieni qua?”
“Ora non posso, ma la settimana prossima verrò per due giorni”
“Quando?”
“Venerdì sera, non questo è ovvio ma l’altro, con il treno”.
“Ti vengo a prendere alla stazione”.
“No, c’è già chi mi viene a prendere”. 
“Hai un altro?
“Che scemo. Viene mia sorella. Ti chiamo io”.
“Come vuoi”.

Mi chiama che è sabato mattina alle sette. Mi fa piacere, non ci ha dormito per il pensiero, si vede che ci tiene. L’invito a venire a casa mia e le indico la strada. Alle dieci arriva. Indossa un completo di pelle bordeaux, giubbotto e mini, stivali testa di moro, calze rosse e sotto al giubbotto una camicetta turchese. Insomma, si è vestita da troia. Mi eccita. Facciamo subito lingua e lingua, poi lingua in bocca, contro la porta, mentre la spoglio, e lei mi mette la mano sul cazzo. 

“Troia, lo sai che sei una troia?” 
“Sei tu che mi fai arrapare, porco!”

Alla fine veniamo in un lunghissimo, contemporaneo, allucinante, appagante orgasmo.

Quando torna dal bagno sono pronto per ricominciare. Ma lei come la volta precedente:

“Ora devo andare, mi aspettano”.
“Va bene”.

La guardo che si riveste e l’accompagno nudo alla porta. Sull’uscio ci scambiamo un lungo bacio. Resto a guardarla dall’uscio semiaperto per vedere se si volta; dal pianerottolo sottostante si gira a guardarmi e mi lancia un bacio con le dita.

Rientro. Mi ficco sotto il getto tiepido della doccia e poi ritorno in camera. Ripensandoci mi viene duro e mi masturbo. Vengo sulle lenzuola, mi pulisco, mi rivesto ed esco.

Non sono più il ragazzino di un tempo, che si sarebbe aspettato grandi cose in un sabato come questo, sognando a occhi spalancati sul mondo. Sono quello che sono, un piccolo verme dell’universo, ma pure il più piccolo verme si gode i suoi brevi momenti di bellezza e di pace, a questo mondo, no?

Il giorno dopo mi telefona: è preoccupata perché teme di esserci rimasta, vuole che usiamo i preservativi, per il futuro.

“Perché usi la pillola?” le chiesi.

“Con mio marito non l’ho mai usata e ora si insospettirebbe. Mi chiederebbe perché”.
“E vabbe’, ma quand’è che ci vediamo?”
“Ora non posso saperlo. Sto per ritornare a casa mia. Ti chiamo io”.

Chiudo senza salutare. M’infastidisce il fatto di dover usare i preservativi perché se usa la pillola suo marito potrebbe sospettare. Primo, il piacere diminuisce. Secondo, vengo evidentemente dopo il coniuge. Evidentemente continua ad avere rapporti con lui e dà per scontato che continuerà a farlo. Questo m’impone una serie di domande, anche se a me non piacciono le domande: lo fa con il marito per dovere? Prova più piacere con lui dopo averlo fatto con me e più piacere con me dopo averlo fatto con lui? Prova più piacere tradendo tutti? Ha altri amanti? Sono solo un uomo-oggetto? Fotte bene, e non posso certo legarla a me chiavandola solamente, è esperta, una vera chiavatrice. Il mio narcisismo ne è ferito, più che il mio amor proprio. Concludo con la risposta più semplice: sono la scappatella che si concede per noia o chissà che altro, ma fondamentalmente resta fedele al talamo nuziale, alle figlie, alla tradizione: adultera sì, ma la sera a casa al sicuro. Cristo! Quanto mi fa rosicare ‘sta cosa.. 

Mi telefona dopo un paio di settimane per dirmi che il marito è partito con le figlie. Non sarebbe tornato prima di due o tre giorni. 

“Ti raggiungo subito”.
“Ma sei pazzo! I vicini ti vedranno!”
“Perché, è un problema, per te?”
“Tu non immagini quante pazzie mi stai facendo fare”.
“Sono pazzo di te”.
“Il guaio è che lo sono pure io”.
“Allora vengo senza se e ma”.
“Va bene, ma devi arrivare stanotte e parcheggiare la macchina lontano da casa”.

Le prometto che avrei fatto proprio così. In tre ore e mezza sto fuori casa sua, alle quattro del mattino. 

“Ciao” le dissi “ça va?”
“Eh… ridi tu”.

Le dico che ho sonno e voglio solo dormire. Mi corico accanto a lei, al posto di suo marito. Ho indossato apposta un paio di mutande sporche. Me le tolgo sotto le lenzuola, e le metto per sfregio sotto il cuscino di lui. Poi più tardi, mentre lei dorme, tiro su le lenzuola dal materasso e ce le struscio sopra. Mi sto proprio sul cazzo, quel cornuto merdoso. 

Al mattino sto solo, lei è al lavoro. Colgo l’occasione per curiosare tra le loro cose, ma conducono una vita schifosamente normale quei due, non c’è niente d’interessante nei cassetti e negli armadi, a parte qualche foto incorniciata della più grande delle due figlie. Promette bene. Quindici anni. Minorenne. No, niente da fare. Non m’impiccio con una minorenne. 

Lei torna verso le tre del pomeriggio.

“Sono preoccupata”.
“Hai paura che tuo marito ritorni all’improvviso?”
“No, non per questo, anche se mai dire mai. Voglio dire che mi sento strana”.
“Hai un ritardo?”
“Dovrebbero venirmi tra un paio di giorni e di solito sono precisa ma mi sento molto strana, mi fa male la schiena”.
“Nausea?”.
“Non sfottere”.

Penso proprio che voglia prendermi per il culo, e mi balena un’idea: e se sta giocando con me come sto facendo io con lei? Questo rende più attraente la situazione, quasi elegante, in un certo senso da adulti, da professionisti. Ora ci manca solo che dica che mi vuole bene e mi chiede se io gliene voglio. Manco il tempo di pensarlo che più tardi, dopo chiavato, mi chiede:

“Mi vuoi bene?”.
“E me lo chiedi?”.
“Io sono innamorata di te, lo sai?”
“Pure io”.

Non vedo l’ora di andarmene. Alla prima occasione le pianto un pippone enorme sulla fedeltà e l’adulterio e lei mi guarda con gli occhi sgranati e mi manda affanculo. Schizzo via come una scheggia. Non la chiamo e mi convinco sempre di più che mi ha sbolognato un sacco di cazzate. Perché abbia messo su quella scena non lo so, anch’io mento, del resto, è un fatto automatico. Nessun bugiardo credo saprebbe dire con precisione perché mente, è un abitudine e un fatto d’estetica insieme, la bugia migliora la qualità della vita. Le toglie piattezza, la rende più avventurosa, pure più sporca, sì, ma meno noiosa. 

Mi telefona dopo una settimana.

“Ho un ritardo di cinque giorni”.
“Perché non fai le analisi?”
“Le ho fatte”.
“E allora?”
“Positive”.
“Oh cazzo!”

Non le credo ma voglio vedere fin dove arriva il bleff.

“Senti, io sono a tua completa disposizione, se vuoi abortire. Dimmi solo dove preferisci farlo, non ti preoccupare dei soldi, ci penso io”. 

Sono certo di averla ferita a morte, ed è quello che voglio. E infatti se ne sta un attimo in silenzio, poi sento la sua voce piena di rabbia.

“Se fosse stato solo questo me la sarei cavata benissimo da sola, che ti credi. Siamo nel duemila e venti non nell’anno Mille, svegliati, coglione!”
“Scusa ma che ti aspettavi? Che volessi fare un figlio insieme a te?”
“Sei un bastardo, ecco quello che sei. Le fai impazzire le ragazzine, eh?”
“Ma che dici, io ti voglio bene, farei qualsiasi cosa per te”.
“Muori!” 

E chiude la conversazione. Rimango a fissare la parete nuda di fronte a me. Che poi mica l’ho capito che cosa volesse da me. Si aspettava di essere trattata con umanità? E perché, forse con la sua bugia è stata umana, con me?

Qualche settimana dopo sono partito per un viaggio di lavoro con la macchina, e sull’autostrada mi sono fermato in un autogrill. Dovevo andare in bagno. Quando ho finito sono rimasto un istante soprappensiero, con il desiderio di chiamarla, era stata una bella chiavata, ma era finita, era finita proprio male e lo sapevo non avrebbe risposto. 

No, non potevo chiamarla. 

Avevo un pennarello nero in tasca, di quelli con l’inchiostro indelebile. Ed è stato in quel momento che mi è venuta l’idea. Ho scritto sul rivestimento della parete, sopra al wc: Sono una bella troia sposata e mio marito non mi basta, vuoi provarci? E ho aggiunto il suo numero di telefono, scritto ben grande.

Lei, non l’ho sentita e non l’ho vista più.

Maggio 2023

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