Tarek Komin

Stile libero

ANNO 01 | NUMERO 07 | MAG 2023

L’indice del ragazzo dietro il bancone batté con forza sulla brochure degli orari, la spillatrice sussultò emettendo un suono metallico. «Ha capito, signore? Dove c’è scritto nuoto libero può entrare».

«Sì, era tantissimo che non venivo qua. Mi ci portava mio padre, da bambino. Non è cambiato molto», rispose estraendo il portafoglio dalla tasca interna del giubbotto.

Un lampo traversò gli occhi del giovane: «Ah, abbiamo lo sconto per i pensionati».

«Non ho nemmeno sessant’anni» rispose con imbarazzo.

«Ah». 

«È che il mio medico mi ha obbligato di fare sport e anche mia moglie va in palestra… ».

«Capisco» lo interruppe brusco, «Sono ottantatré euro, comprensivi della tessera associativa».

Infilò la carta nel pos e digitò il pin. 

«Per il certificato va bene anche la prossima volta». 

Lui annuì, l’odore di cloro sembrava immutato nel tempo. Avevano vinto loro: il dottor Costi e Roberta. Che ogni sera gli ripeteva la litania dei suoi maledetti esercizi: oggi 4 serie da 30 burpees, 8+8 sumo squat, 24×2 australian pull up, 16×3 affondi con manubri, 30 minuti di corsa tra 11 e 12, oh mi ascolti? Capito? Ne conosceva la metà, confondeva i nomi, ma guai a confessarlo, glieli avrebbe spiegati lenta ed esasperante. 

«Signore?».

Stai ingrassando molto, il dottor Costi dice che hai valori sballati, colesterolo eccetera, ma la mia palestra non fa per te, ritmi troppo alti, e poi non mi va di averti intorno, ognuno ha i suoi spazi no? Devi perdere peso, guarda me, all’inizio 10 squat jump mi bla bla e poi sono arrivata ai total reverse e bla bla bla con la dieta bla bla mica come te che bla bla bla salumi e formaggi.

«Può estrarre il bancomat» esclamò il ragazzo.

«Come? Ah, già, scusi».

Rimise la carta nel portafoglio e si allontanò dal bancone.

Un’altra filastrocca sostituì la moglie. Era la voce dell’istruttore che aveva da bambino, nella memoria non aveva smarrito il riverbero del grande spazio sopra le corsie: aria-soffio, aria-soffio, forza! Qual è il problema? Esci troppo, allunga le braccia, aria-soffio, aria-soffio, ancora altre 2, sempre a stile, aria-soffio.

Sarebbe tornato a nuotare. Lo odiava. 

**

L’enorme orologio digitale alla parete segnava le 18.11, 26° gradi. Era alla sesta vasca e si fermò per rifiatare. A quell’ora la piscina era più affollata, ma col nuovo orario lavorativo che gli aveva ristretto la pausa pranzo non poteva fare altrimenti. Un po’ d’acqua velava le lenti e si sollevò gli occhialini fin sopra la cuffia. Aria-soffio. Da bambino l’acqua era più fredda. O forse i ricordi amplificavano gli aspetti negativi di quello sport tanto disprezzato. Si sfiorò il ventre, sotto la superficie. Forse era leggermente più tonico, non dimagrito. Del resto quella era la quarta volta, era già tanto che stesse sviluppando maggiore resistenza.

Si voltò per darsi la spinta e ripartire. «Fermo» una voce alle spalle, «Mia figlia entra con lei».

Due piedi affondarono in vasca, alla sua destra una ragazza si era messa seduta sul bordo e si stava aggiustando gli occhialetti. Le gambe grassocce e un costume nero. Doveva avere 13-14 anni. Scese in acqua sollevando spruzzi e il suo tallone gli sfiorò il ginocchio. Lei non parve accorgersene e lo squadrò, come a volerlo studiare: «Allora, tu stai a sinistra?».

Non aveva mai condiviso una corsia. Annuì, avrebbe dovuto stare attento a un altro corpo oltre il suo, non altrettanto ingombrante ma nemmeno minuto. Doveva evitare il dorso, l’avrebbe di certo colpita. 

«Dai, cazzo, parti» la madre sul bordo dietro di loro incitò la ragazzina che ubbidì e si allontanò a stile. Lui si voltò. La donna si stava sfilando l’accappatoio, era magra, slanciata. I capelli biondi corti e gli occhi piccoli e distanti. La osservò camminare svelta verso gli appendiabiti. I piedi si erano già liberati dalle infradito. Le gambe troppo secche e il costume che fasciava le chiappe non avevano niente di sensuale. Lui si girò per nuotare ma nel frattempo la ragazzina stava tornando e quando toccò la sponda gli si rivolse aspra: «Ancora sei qui?».

Alzò le spalle e non rispose, si diede una spinta e partì. Presto fu superato. Lei era veloce, almeno il doppio di lui, e sollevava un sacco di schizzi sbattendo le gambe. La vedeva allontanarsi sotto la superficie, coi suoi piedi carnosi e il culo tondo e quando lui emergeva per prendere aria, aria-soffio, gli spruzzi che lei sollevava gli entravano in bocca, disturbando il ritmo del respiro. 

Quando arrivò alla sponda, l’adolescente era già ripartita. Lui si bloccò un attimo e lei fece in tempo ad andare e tornare di nuovo per fermarsi infine a discutere con la madre. Da lontano la donna pareva adirata.

Le raggiunse. Incrociò lo sguardo con la ragazzina che lo scrutava, quasi lo aspettasse. La madre si era messa fare stretching a bordo vasca e mentre lui rifiatava la voce di Roberta nella testa blaterava 10 squat jump e bla bla. Qualcosa in quella donna magra gli ricordava la moglie.

«Ehi vecchio, sei lento».

La ragazza gli rivolse la parola.

«Cosa?», piegò il collo verso sinistra. 

«Sei anche sordo? Dai facciamo una gara».

«No, cosa? È che ho l’acqua nelle orecchie. No, una gara no, ho cominciato da…».

«Grassone fifone!».

Non sapeva come rispondere, lei aveva un’espressione perfida.

«Mamma, guarda come straccio il panzone!», sogghignò.

La madre la ignorò e continuò ad allungare la schiena poggiando i palmi sulle piastrelle lucide.

«Andiamo, fifone, ti faccio il culo!». La ragazzina partì. Lui sospirò, più spaesato che arrabbiato. Si diede una notevole spinta poggiandole punte e fu lieto di riemergere oltre le bandierine che stavano in alto e che erano utili nel dorso per evitare di sbattere la testa contro il bordo vasca. Si allungò, bracciate possenti. Il trapezio tirava, muscoli induriti. Aria-soffio. Ma lei era già lontana. Gli urlò qualcosa quando lui era a metà. Segno che era arrivata. Lo aspettava e rideva.

«Fai schifo, vecchio!».

Lui ansimava: «Guarda che non è una gara, non mi importa».

«Certo, certo. Come no».

«Sul serio, non importa. Pazienza», cercava di avere un tono noncurante. Ma scandiva male le parole, era a corto di fiato.

«Perché fai schifo. Brutto, grasso e non sai nuotare».

«Sì, però non ti permetto di…», stava perdendo la pazienza.

«Dai, sta zitto e nuota, demente!» e ripartì veloce senza dargli il tempo di articolare una risposta. 

Voleva inseguirla ma si sentì impotente, ancora boccheggiava. Quell’incontro gli aveva fatto saltare i suoi ritmi, non stava facendo un allenamento adeguato. Attese allora un minuto, i valori sballati, il colesterolo e riprese lento a stile. Sarebbe arrivato coi suoi tempi. La rivale fece altre due vasche rapide. La madre prese a urlarle incitamenti e offese. Aveva la bocca deformata dalle grida. «Serra le dita! Spingi! Respira ogni quattro!». 

Quando lui raggiunse il bordo vasca, si sollevò gli occhialini e si rivolse alla donna che si stava aggiustando sul capo una cuffia verde: «Scusi, sua figlia…».

«Non ti sento, aspetta che devo entrare!».

La donna si tuffò a candela. Riemerse e turandosi una narice per volta soffiò via dal naso l’acqua che era entrata.

«Dimmi, svelto».

«No, dicevo, sua figlia provoca e…».

«Eccola. Più veloce!», lo ignorò.

La ragazzina toccò la sponda e si arrestò, ora erano in tre in poco spazio.

«Le hai contate?».

«Sì una bracciata in meno».

«Ora mi vieni dietro, se questo signore si sposta, e seguì il mio ritmo».

«Aspetta, mamma, dammi un secondo».

«Alle gare non te li danno i secondi. I perdenti si riposano».

La donna lo guardò. Forse non stava neanche alludendo a lui. Forse era una frase fatta che ripeteva alla figlia. Ma lui abbassò lo sguardo. Aveva la mano appoggiata al bordo e stava pensando di afferrare la tavoletta della corsia vicina e farsi una vasca lento. È inutile parlare con questa donna.

La madre partì. Ma la ragazzina non la seguì subito, prima trovò il tempo di rivolgersi al lui: «Guarda come si fa, vecchio schifoso!». Si immerse e si avviò veloce. 

Rimase senza parole. Non poteva né voleva competere. Ma quelle offese gratuite bruciavano. Aria-soffio. Si guardò intorno, tutte le altre corsie erano occupate da due persone e ora nella sua ce ne erano tre. Era sconfitto, la lasciò a quelle streghe e si avvicinò alla scaletta per uscire. Al secondo gradino il costume scese leggermente scoprendo il fondoschiena; l’etichetta era fuoriuscita e gli dava prurito sul coccige. Si mise svelto l’accappatoio. Nello sciabordio confuso della piscina fu certo di sentire le risate crudeli della ragazzina che lo deridevano.

**

«Aria-soffio!» urlò all’improvviso.

«Oh!». Un movimento, le coperte tirate gli scoprirono le spalle. Roberta accese l’abat-jour.

Lui si mise a sedere sul letto, il cuore era un picchio ostinato. «Scusami, sognavo».

«Eh, ho capito. Ma sono le 3 e mezza. Tra due ore ho la sveglia!».

«Scusa, ma di solito sogno la notte» si accorse di essere stato brusco. Le scivolò quindi accanto e le sfiorò i capelli. «Vai a correre anche domani mattina?».

«Sì», lei gli scostò le dita che giocavano con una ciocca e aggiunse: «Sai, stavo pensando di tagliarmeli».

«No».

«Diamine che fermezza».

«Volevo dire che non mi piacciono le donne con i capelli corti. Cioè, ti preferisco così». Tornò a stendersi, con gli occhi verso il soffitto.

«Vuoi dirmi che hai sognato?».

«Qualcosa sul nuoto, credo. Lo odio e ho un gran mal di schiena!».

«Ma stai facendo progressi, il dottor Costi è contento e sei anche un po’ dimagrito. È la crisi del secondo mese, tipica degli sportivi amatoriali».

«Sarà».

Roberta spense la lampada: «Dormiamo».

Lui sospirò nel buio: «C’è un’altra cosa».

«Parla».

«C’è una mamma con una ragazza che…».

«Ti sei innamorato?» lo schernì.

«Ma no. Sono due stronze. Si buttano sempre nella mia corsia, mi perseguitano. Sembra facciano apposta. Anche quando cambio orario le incontro».

«Dai, addirittura ti perseguitano…».

«Sì, mi offendono. Soprattutto la ragazza. È brutale. E la mamma è una stupida, ossessionata. Maltratta anche la figlia, non so se ha qualche gara, ma…».

«Che ti frega. Tu allenati».

Lui sbuffò: «Non è così facile. Mi sfidano, mi sento umiliato. Ma non mi va di litigare per… per il nuoto ecco. Che senso ha, non ho dodici anni?»

«Sarà una cosa da ragazzini appunto. Lascia perdere. Dai dormi».

La ignorò: «E poi devono essere persone importanti, piene di soldi. La madre viene trattata come una regina anche dagli istruttori. Sembra che io le faccia un dispetto ad essere lì, ad occupare il mio spazio, anche se arrivo prima» si aggiustò ancora il cuscino e cambiò posizione. «Mi fa male la schiena, cazzo. Dovrei smettere!»

Roberta rise: «Smetti lo sport per questo? Dai che è una scusa. Ma quante vasche fai?».

«Cosa c’entra?».

«Su, quante ne fai?».

«Sto cercando di arrivare a 40».

«Cercare non è fare. E lei quante ne fa?».

«Ma chi?  La ragazza? Non lo so».

«Beh, contale. E fanne dieci in più».

«Ma tu sei matta. È velocissima e io non ho fiato. E poi non ha senso».

«Devi allenarti, migliorare. Le tue sono scuse».

Lui non rispose. Gli sembrava che a parlare fosse la madre della stronza. Avrebbe voluto insistere, dirle che farsi chiamare schifoso, vecchio o demente non valeva la pena per nessun motivo al mondo. Figuriamoci per il nuoto. Ma restò in silenzio, Roberta non avrebbe capito. Le diede la buonanotte e cercò di trovare una posizione che lo facesse riposare. Pensò che i suoi muscoli lombari fossero contratti. Poi concluse che non poteva tornare ad avere incubi sulla piscina, come quando era bambino. 

«Non è giusto» mormorò. Roberta aveva il respiro regolare e non lo udì. Dormiva. Di lì a poco la voce di Giusy Ferreri che era la sveglia impostata per l’allenamento della moglie avrebbe squarciato il silenzio e destato anche lui. 

**

Con la sinistra tormentava la levetta del sedile per cercare la giusta inclinazione ma qualsiasi posizione trovasse i lombari continuavano a fargli male. Col motore spento e la radio al minimo teneva gli occhi fissi sull’ingresso della piscina. Chissà se qualcun altro, come lui quel giorno, era entrato per fare solo quattro vasche? Il ragazzo alla reception lo aveva guardato stupito senza chiedergli nulla, forse aveva pensato a un impegno improvviso. Che si fottesse anche lui. 

Alla quarta vasca, fermo vicino al bordo, le aveva viste arrivare e si era affrettato verso la scaletta: quel giorno non lo avrebbero offeso. Si erano incrociati vicino agli accappatoi appesi. La madre non lo aveva degnato di uno sguardo mentre la figlia aveva biasciato qualcosa di incomprensibile. L’aveva ignorata, come si era imposto di fare ed era tornato nello spogliatoio per rivestirsi senza nemmeno farsi la doccia.

Ora l’abitacolo puzzava di cloro. Rinunciò a trovare una posizione comoda sul sedile e cercava di non concentrarsi su quell’odore che portava addosso e che lo nauseava. Come quando da bambino suo padre lo trascinava per un braccio lungo il corridoio e lo costringeva a infilare il costume. Il puzzo gli restava appicciato come nastro adesivo sotto le suole delle scarpe, ossessivo e impertinente. 

Aria-soffio. Quante vasche fai? 

Le voci si rincorrevano e si confondevano mentre i minuti passavano. 

Sta zitto e nuota, demente!

Trascorse un’ora, forse più e finalmente le vide uscire, inconfondibili profili sferzati dal lampione della sera.

Mise in moto senza accendere i fari e partì lento, intanto madre e figlia imboccavano il vialetto del parcheggio, trascinandosi dietro due grossi borsoni. 

Aria-soffio.

Non staccava loro gli occhi di dosso, piegando la testa mentre la sua auto scorreva placida tra le altre in sosta. Stavano camminando verso di lui, forse erano a meno di dieci metri, stimò. 

La ragazza si chinò per allacciarsi una sneaker bianca e la madre le disse qualcosa che lui non riuscì a capire. Sicuramente le stava mettendo fretta. 

Chissà che impegni avranno? 

Sorrise e poi di colpo sterzò verso il pratino che lambiva il viale d’accesso al parcheggio. Accese gli abbaglianti mentre accelerava e per un attimo, prima che le due rimbalzassero rumorosamente sul suo cofano e fossero scaraventate via come coriandoli, gli parvero due cerbiatti smarriti, ipnotizzati dalla luce.

Maggio 2023

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