Maria Teresa Mauri

In cucina ci vuole amore

ANNO 01 | NUMERO 07 | MAG 2023

È una calda giornata autunnale. Mi piace andar per boschi in cerca di funghi, bacche selvatiche e castagne. 

“Ciao, papà, io esco”.

“Vai, vai sempre in giro, sei più selvatica delle tue capre!” mi risponde dalla poltrona che lo tiene prigioniero davanti alla televisione sempre accesa. 

Lui, al contrario, non esce più. Da quando è mancata la mamma passa le sue giornate a guardare programmi di cui non gli importa nulla. Siamo rimasti solo noi due e le capre.

Esco dal paese, imbocco uno dei mille sentieri che si snodano verso l’altopiano, in questa stagione posso camminare per ore senza incontrare anima viva. Rientro a casa verso sera, purtroppo senza funghi ma con il mio bottino: due chili di castagne, un sacchetto di corniole, le bacche rosse per fare il succo che nonna mi dava d’inverno contro il raffreddore, e un altro pieno di foglie di senape selvatica. Il bosco è ricco di piante utili, ne conosco molte e amo cucinarle in modi semplici e creativi.

“Allora è pronta questa cena?” chiede mio padre impaziente. Lui non apprezza la mia cucina, credo non gli piaccia nulla di me.

“Adesso preparo, un po’ di calma, che fretta hai?” rispondo.

“Perché ci hai messo tanto?” insiste.

“Uffa, ci ho messo quello che ci ho messo, no? Tornando ho dovuto riportare le capre nella stalla.”

“Se ti decidessi a prender marito avresti un po’ di aiuto con le capre, potresti pensare più in grande, alla produzione del formaggio invece che vendere il latte a due lire al Caseificio sociale.”  

Così ne avrei un altro che comanda a cui preparare pranzo e cena! penso.

Indosso il grembiule da cucina, raccolgo i capelli con la fascia elastica. Qualche ricciolo ribelle non ne vuole sapere, indomito mi solletica la fronte. Scaldo la minestra, cuocio la frittata con le foglie di senape selvatica che ho raccolto e metto in tavola. Sono una brava cuoca, mamma diceva sempre che per cucinare ci vuole amore.

“È pronto, papà!” 

“Era ora!” bofonchia lui avvicinandosi alla tavola. Si siede pesantemente, inforca il cucchiaio e inizia a mangiare la minestra aspirando rumorosamente. Il brodo gli va di traverso, inizia a tossire e a maledire me e il cibo che gli ho preparato. Mai all’altezza di quello che preparava mamma.

Dopo cena si appisola, russa in poltrona, mentre un filo di bava gli scende lentamente a lato della bocca semi aperta. Lo guardo sconsolata. Inorridisco all’idea di dover passare la mia vita con lui. Sono giovane. Mi hanno avuta tardi, pensavano che non avrebbero più avuto figli. Quando c’era la mamma era diverso.  Papà era le braccia per i lavori più pesanti, lei teneva le redini della piccola azienda familiare, si occupava delle capre e della produzione del formaggio. Era anche un’ottima cuoca, faceva conserve e marmellate. Con il furgoncino raggiungeva i mercati della valle dove vendeva i suoi prodotti. Adesso è tutto in mano mia, devo solo organizzarmi meglio. Papà non è di alcun aiuto è solo un peso, da sola non ce la posso fare a stare dietro a tutto.

L’indomani, all’alba, lascio le capre libere di pascolare nei campi, carico sul furgone i prodotti per il mercato di Breganze e parto. Arrivo, sistemo il banchetto sotto l’ombrellone e metto in mostra i prodotti.

“Ciao, allora me lo fai lo sconto questa volta?” chiede la ragazza sorridendo mentre assaggia il caprino alle erbe. La riconosco: viene tutte le settimane, l’ultima volta si era pure presentata, anche se mica glielo avevo chiesto, si chiama Giulia.

“Sì, vabbè, non ti faccio pagare gli assaggi ma se continui così mi fai fuori tutto il banco” rispondo sorridendo a mia volta.

“Sei della zona?” 

“Sì, di Pianezze e tu?”

“Di Marostica, sono tornata dopo la laurea, adesso cerco lavoro.”

“Puoi venire a lavorare per me” dico in fretta. Mi stupisco della mia offerta. Cosa mi è preso? Cosa me ne faccio di una laureata in mezzo alle capre?

“Sarebbe bello, cosa dovrei fare?” risponde di getto prendendo le mie mani fra le sue. Mi ritraggo confusa ma non pentita dell’offerta. Qualche giorno dopo la vado a prendere col furgone e la porto a casa.

“Papà, ho preso un’aiutante.”

“Bene, alla fine ti sei decisa a dirlo a Ortensio, che poi magari ti sposa” risponde lui senza neppure voltarsi.

“No, è una ragazza, è qui.”

“Buongiorno!” dice lei allungando la mano per presentarsi “Mi chiamo Giulia, sono laureata in agraria, sono felice di lavorare per voi.”

Ma va a cagar sule ortighe! Te si proprio una mòna” inveisce lui verso di me. “Cos’è ‘sta storia, fuori di qui! Non c’è bisogno di dottoresse per le capre e la terra” conclude in preda ad un attacco di tosse.

Inizia così la nostra collaborazione. Giulia si è laureata con una tesi sull’allevamento e l’agricoltura biologica sostenibile, è una ventata di novità. Papà non sente ragioni ma io faccio di testa mia. Lei, per comodità, lascia Marostica e si trasferisce da noi. Non si tira indietro su niente, è una lavoratrice nata, ha un sacco di idee per migliorare la qualità e la sostenibilità della produzione. La suddivisione dei compiti ci viene naturale, non c’è bisogno di discutere. 

È mio padre il problema, la mia scelta non gli va giù e ci rende la vita difficile. Moltiplico i miei sforzi in cucina per ammansirlo. Una sera, per addolcire l’atmosfera, porto in tavola una morbida torta di castagne e cioccolato, un abbinamento irresistibile, specie con il cioccolato fondente, accompagnata dalla panna montata. Mentre il profumo ci avvolge si parla di quali investimenti sono necessari per rendere l’azienda innovativa. Non è la prima volta che se ne discute ma andando avanti di questo passo non sarà neppure l’ultima.

L’impianto fotovoltaico, di 50kW come potenza massima, sul tetto della stalla, produrrebbe più del 50% di energia necessaria per sostenere la produzione casearia e l’allevamento. Sarebbe un grande risparmio oltre che una scelta più sostenibile per l’ambiente” esordisce Giulia.

“E quanto costerebbe, tutto compreso?” chiedo.

“Penso circa 50.000 euro, ma ci sono gli incentivi e poi si ammortizzerebbe la spesa in cinque o sei anni. Ci sarebbe da mettere anche l’impianto di fitodepurazione, le radici del canneto di Phragmites australies, oltre a permettere l’evaporazione, fanno da supporto ai batteri che degradano gli inquinanti dei reflui, facendo confluire solo l’acqua pulita nei fossi. Altri 20.000 euro all’incirca” conclude Giulia.

“Che ne pensi papà?” chiedo.

“Mi de schèi non ne caccio fora!” chiude il discorso alzandosi da tavola. Gli sforzi di addolcirlo con i miei manicaretti non hanno dato buoni risultati.

So quanto è cocciuto, solo mamma riusciva a renderlo ragionevole. Guardo Giulia, lei mi sorride comprensiva. Sono felice che sia entrata nella mia vita come un uragano, senza di lei mi sarei spenta, a poco a poco, insieme a mio padre.

L’indomani nel pomeriggio esco per una delle mie passeggiate nei boschi.

“Vuoi venire con me?” chiedo a Giulia.

“Certo! Mi piace fare tutto con te…proprio tutto!” risponde ridendo e ammiccando maliziosa. Una vampata di calore mi fa arrossire per il piacere.

Dopo aver raccolto un po’ di funghi e castagne mi fermo in una radura ricoperta di fiori dal tenue colore rosa violaceo. Conosco quella pianta, è il colchico autunnale, chiamato anche “falso zafferano” perché assomiglia molto al Crocus sativus, una pianta esotica, coltivata per la raccolta dello zafferano. Questa però ha sei stami invece di tre e le proprietà sono diverse: è una pianta velenosa, può portare alla morte per insufficienza respiratoria o collasso cardiocircolatorio. Ne raccolgo un mazzo mentre Giulia mi osserva senza fare domande.

La sera mi metto a cucinare una delle specialità di mamma: il risotto alla milanese, con lo zafferano, fatto a regola d’arte. Uso la vecchia casseruola di alluminio per il soffritto di cipolla e midollo d’osso mentre, in una pentola a parte, bolle il brodo di carne. Aggiungo il riso al soffritto, lo innaffio con un bel bicchiere di vino, lascio sfumare e inizio ad aggiungere il brodo, poco alla volta, sempre mescolando. A metà cottura sciolgo una bustina di zafferano in un mestolo e lo verso nella pentola. Strisce di colore giallo e arancio si mischiano creando un disegno quasi psichedelico finché donano a tutto il riso un colore dorato, uniforme. Aggiungo una bella manciata di stimmi dei fiori del “falso zafferano”, so bene che questi non fanno parte della ricetta di mamma.

“Che profumo! Il mio piatto preferito, me lo faceva tua mamma,” esclama mio padre sedendosi a tavola “voi non mangiate?” 

“No, mangiamo più tardi, dobbiamo ancora finire di scaricare il furgone. Tu comincia pure” rispondo senza guardarlo negli occhi. Giulia mi segue senza una parola.

È passato un po’ di tempo ormai, da quando papà ci ha lasciate. Quella sera ha avuto un improvviso collasso cardiaco, ma si sa, non si è più ripreso dalla morte della mamma. Lo dicevano tutti. Adesso l’azienda prospera, abbiamo installato gli impianti per la sostenibilità energetica, per la depurazione delle acque e stiamo crescendo. Giulia si occupa della parte amministrativa, della promozione e del controllo di qualità, io degli animali e della vendita, quest’anno abbiamo aggiunto all’azienda una sala adibita a punto vendita e all’accoglienza dei visitatori. Stiamo pensando di trasformare la casa in agriturismo. Lei vorrebbe che le intestassi una parte della proprietà, dice che se lo merita e che mi posso fidare.

C’è un nuovo aiutante, un amico di Giulia dei tempi dell’università. Lei dice che è molto bravo a gestire la parte di comunicazione sui social. Io non me ne intendo, ma non mi piace e non mi convince troppo, anche per come la guarda. Non mi preoccupo però, la mia specialità sono le piante e le erbe selvatiche, mia mamma sapeva tutto e mi ha insegnato a riconoscerle e a utilizzarle in cucina, con amore. 

Giulia lo sa.

Maggio 2023

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