Francesca Casella

Cibo per gatti

ANNO 01 | NUMERO 08 | GIU 2023

Rose era seduta al suo banco per modo di dire. Il ginocchio sinistro era ripiegato sotto di sé, il piccolo piede destro ciondolava dalla sedia. Teneva il tempo adocchiando l’orologio issato sopra la cattedra della sua classe. Non aveva ancora imparato a leggere l’ora ma sapeva che quando la lancetta più lunga avrebbe raggiunto il trattino verticale del mezzogiorno, la lezione sarebbe finita.

La sua letterina giaceva già conclusa da ben cinque minuti. Gli avambracci erano sulla superficie del banco e da quella posizione sopraelevata, la sua testolina castana si muoveva imperterrita a cercare le teste dei suoi compagni per vedere se ci fosse qualcun altro prossimo al completamento di quella lista dei desideri.

« Rose, non si copia! » la voce di Mrs Jones interruppe bruscamente quel girovagare del tutto innocente, gli occhi scuri e ampi di Rose puntarono la sua insegnante.

« Ma io non sto copiando: ho già finito! » l’indignazione pressava in quella voce così madida di candore e anche di un certo orgoglio. Quello tipico dei bambini che godono della competizione in ogni gioco.

Finì comunque per sedersi in maniera più composta al suo posto, lasciando scivolare giù entrambe le gambe. Quelle che, quando la campanella suonò, scostarono la sedia, puntarono i piedi a terra per farla correre prima di tutti gli altri alla cattedra per consegnare la sua letterina a Mrs Jones.

Mrs Jones controllò il foglio e lo lesse, prima di ripiegarlo in due mentre lo inseriva all’interno di una bustina rossa.

« Solo un desiderio, Rose? » la domanda conciliante della maestra la raggiunse, assieme ai suoi occhi, più incuriositi che giudicanti. Quegli occhi trovarono la bambina intenta ad annuire con un vigore caparbio e lo sguardo carico di fede e di una fiducia che nessuno sarebbe riuscito ad affossare – nemmeno l’evidenza.

« Solo uno. »

E quelle poche parole, Mrs Jones non se la sentì di sconfessarle, lasciandola libera di andare mentre le sedie degli altri strisciavano sul pavimento e le chiacchiere si levavano – segno che tutti avevano ultimato il loro lavoro.

Rose stava aspettando quella mattina di dicembre carica di ansia e aspettativa: il giorno in cui Mrs Jones avrebbe chiesto a tutti di scrivere la lettera dei desideri da spedire a Babbo Natale.

Sapeva benissimo cosa scriverci. Se l’era ripetuto per giorni nella sua testa quell’unico desiderio, quello che aveva piantato su carta con un tale stato febbrile che le aveva fatto tremare le dita qui e lì.

Rose, all’onorevole età di sette anni, era andata ben oltre le bambole, i giocattoli. Non aveva grandi pretese tecnologiche e nemmeno aspirazioni modaiole.

Lei voleva essere un gatto.

Non chiedeva tanto – come aveva scritto allo stesso Babbo Natale: non le interessava il colore (nero, bianco, aranciato) o la lunghezza del pelo (lungo, corto, cortissimo). Voleva solo risvegliarsi la mattina di Natale nel suo letto col suo corpo trasformato in quello di un animaletto a quattro zampe – un gatto, appunto.

L’idea, quando aveva preso corpo nella sua mente, si era rivelata a tal punto geniale, a tal punto risolutiva da non aver rivelato nessun contro per demolirla e osteggiarla. Era pervasa da un tale senso di calda rivincita da aver deciso di non dirlo a nessuno, nemmeno a sua madre – perché, si sa, i desideri meno si dicono ad alta voce e più è probabile che si realizzino.

« Mamma, sono a casa! »

Quando Rose rientrò in casa, sua madre era in cucina, intenta ad aprire la scatoletta del cibo per gatti che avrebbe riversato all’interno delle ciotole dei rispettivi padroni: Velvet e Ziggy. E se al suo ingresso in quella casa, quei due mammiferi non avevano dato alcun cenno di vita, non appena avevano percepito il clangore metallico di quella lattina, rivelarono la loro presenza lanciandosi in cucina: chi dalla porticina del giardino, chi da anfratti tra i mobili. Pronti a rispondere a quel richiamo irresistibile. Lo fecero in silenzio, balzando su quel tavolo con la leggiadria propria di chi è sin troppo consapevole di sé e in qualche modo si impone. Rose si ritrovò solo per un istante quattro paia di occhi ferini a puntarla, a congelarla lì sull’ingresso – come se quella fosse molto più casa loro di quanto non fosse la sua. Ma ben presto quegli occhi si riversarono sulle corrispettive ciotole, iniziando a mangiare avidamente la loro mousse gold di pesce oceanico.

Rose non osava avvicinarsi a quel tavolo, non lo faceva mai quando Velvet e Ziggy erano impegnati a mangiare – non gradivano la sua presenza, la tenevano a distanza come faceva la sua stessa madre  che, a differenza loro, non la guardava nemmeno e nemmeno si era accorta di sua figlia. E tant’è, quando i suoi occhi finirono per inquadrarla, l’espressione stanca si lasciò contaminare da una traccia di evidente sorpresa.

« Quando sei arrivata? »

« Poco fa, ti ho… chiamata. »

La manina destra che si alzò a indicare l’ingresso e quegli occhi scuri che non riuscivano a staccarsi dalla figura di sua madre, pregni di un desiderio che pareva chiedere solo un abbraccio – uno soltanto. Quello che non arrivò nel momento in cui la figura materna buttò quella scatoletta nell’indifferenziata per poi dire:

« è avanzata della pasta con formaggio nel microonde, sai come si fa. »

La coltre di ciglia sfarfallò appena sugli occhi scuri di Rose ma lei annuì senza incertezze, lasciando spazio a sua madre che uscì da lì. Rose sospirò e una volta abbandonata la sua cartella in un angolo, si avvicinò al microonde. Si sollevò sulle punte e, non senza sforzo, le dita pigiarono sull’elettrodomestico, i suoni elettronici che segnalavano la sua accensione assieme alla luce aranciata e il timer che dichiarava quei cinque minuti necessari al suo lauto pasto.

Rose osservava il suo piatto di mac & cheese ma, soprattutto, osservava il suo riflesso su quel vetro, con alle spalle Velvet e Ziggy che mangiavano il loro pesce gourmet ignorando la sua esistenza.

Nella sua mente disordinata di bambina, ricordava alla perfezione il momento in cui Velvet e Ziggy erano entrati nella loro vita. Ingenuamente, aveva proposto di adottarli un pigro pomeriggio settembrino mentre era a fare spese con sua madre al centro commerciale. Furono scelti un po’ a caso tra una schiera di cuccioli tutti diversi tra loro. Rose immaginava nella sua testa l’infinità di giochi che avrebbe portato avanti con entrambi, la consolazione che avrebbero donato a lei e a sua madre. Quella madre che era sempre incredibilmente triste da quando il padre di Rose era andato via e, andando via, aveva seminato un senso di colpa che si era annidato nel cuore di quella bambina ormai certa di essere causa di ogni dipartita e di ogni tristezza. 

Velvet e Ziggy, d’altro canto, non solo divennero una nuova ragione di vita per sua madre ma, sin da cuccioli, parevano non tollerare la presenza di Rose. La bambina divenne ben presto vittima di ogni graffio, di ogni morso, di ogni occhiata crudele che quelle creature le riservavano quando si avvicinava troppo a quella che ormai consideravano loro genitrice. 

Facile intuire perché quel banale e irrealizzabile desiderio era germogliato come un parassita proprio accanto al senso di colpa. Facile capire perché Rose l’avesse fatto crescere e divampare nella speranza potesse bruciare via ogni sentimento negativo: solo diventando un gatto, Velvet e Ziggy l’avrebbero accettata e sua madre sarebbe tornata ad amarla come amava quelle due bestie. 

Inutile dire che Rose dormì davvero molto poco nella notte tra il ventiquattro e il venticinque dicembre. Riuscì ad addormentarsi solo quando il buio pesto iniziava a schiarirsi a causa del sole ma non appena vide la luce del giorno, non ci fu gelo che riuscisse a trattenerla oltre in quel letto, sotto quelle coperte. Scattò in piedi, in direzione dello specchio che aveva in camera. 

La delusione che le si palesò dinnanzi fu gigantesca, ineluttabile, ingestibile. Qualcosa le comprimeva il petto, qualcosa che a sette anni non seppe definire: Babbo Natale non aveva realizzato il suo desiderio e nonostante quello fosse il giorno più felice dell’anno per un bambino, per lei si tramutò nel giorno più triste. 

Quando scese al piano di sotto, vide sua madre che giaceva distesa sul divano, le lucine dell’albero di Natale che sfarfallavano assieme alle luci opache che rimandava la televisione, accesa da chissà quante ore. Si spostò in direzione della finestra dell’ingresso per provare a capire dove fossero Ziggy e Velvet e così facendo, quando si ritrovò incorniciata dal vetro, vide che sul lato opposto della strada c’era un individuo travestito da Babbo Natale. 

Era un Babbo Natale un po’ insolito: la figura affusolata e spigolosa, nessuna barba candida sul viso. Un viso scavato che ricordava ben più le fattezze di uno scheletro che non quelle rosee e accoglienti del tipico Santa. Oltre i lembi del cappello rosso e bianco che si era issato sul capo, sfilavano lunghi ciuffi biondi. Le dita sottili della mano sinistra reggevano una sigaretta già accesa ed era chiaro fosse lì, in prossimità dell’ingresso di quel market h24 per accogliere tutti i ritardatari intenti a procacciarsi cibo. 

Lo sguardo di Rose scintillò nel riflesso di quel vetro, un’idea le balenò in testa: era la sua ultima possibilità. 

Recuperò la giacca a vento, quella da cui si lasciò abbracciare prima di sfrecciare fuori da casa sua per raggiungere quell’atipico Babbo Natale, sfidando la strada per raggiungere il marciapiede opposto. Le guance candide furono pizzicate da tutto quel freddo e non ci fu indolenzimento che potesse impedirle di parlare, per quanto, man a mano che si avvicinava, ben presto gli occhi di quell’uomo finirono per osservarla. 

« Babbo Natale, io… » iniziò con una buona dose di timidezza, quella che le rese sin troppo chiaro che non sapeva nemmeno cosa dire. Ma non fu nemmeno necessario proseguire perché fu l’uomo a prendere parola. 

« Non hai avuto il tuo regalo. » concluse da solo mentre continuava a osservarla e per la prima volta in vita sua, Rose provò una sensazione strana: era come se quello sconosciuto la guardasse e riuscisse a vederla veramente. Come se le leggesse addosso qualcosa – ciascuno dei suoi desideri. Rose annuì a quelle parole, grata che qualcuno avesse capito subito. 

« Non vuoi una bambola? Delle caramelle? Un dolce al cioccolato? » a ciascuno di quei papabili desideri, Rose scosse la testa senza incertezza ma con gli occhi così carichi di speranza, da spingere ben presto quell’uomo a fare qualcosa di a dir poco sorprendente. 

Quel Babbo Natale sconosciuto allungò la mano destra nella tasca di quella giacca rossa tirando fuori… Una scatoletta blu e dorata. Una mousse gold di pesce oceanico – precisamente la stessa che Velvet e Ziggy mangiavano avidamente ogni giorno. 

Lo sguardo di Rose si fece grandissimo, gli occhi lucidi che si issarono a cercare il viso di quel Babbo Natale carichi di un’infinità di domande che non riusciva a concretizzare a parole, almeno finché non emise un banale « Come…? »

Babbo Natale allungò la scatoletta verso la bambina, « Sono una creatura composta da ciascuno dei vostri desideri, Rose. »

Rose era pietrificata e allo stesso tempo docilmente affascinata dall’uomo che aveva dinnanzi; il suo personale Babbo Natale che non solo aveva riconosciuto il suo desiderio ma l’aveva anche chiamata per nome come sua madre non faceva da chissà quanto tempo. 

« Ti basterà mangiarla. » suggerì l’uomo e Rose fu ricolma di una gratitudine pronta a farle scoppiare il cuore di felicità. Un sorriso enorme si spalmò sul suo visetto e senza chiedere più nessuna spiegazione, afferrò quella scatoletta di cibo per gatti e, così come era corsa verso di lui, corse di nuovo in casa sua. 

Qualcosa di febbrile la scuoteva da dentro, un calore che le ustionò le guance non appena fu di nuovo dentro quel salotto, prima di correre in cucina. 

Riuscì ad aprire quella scatoletta non senza sforzo. Le narici si riempirono molto presto dell’odore di pesce, un odore sin troppo pungente, aspro, sgradevolissimo. Talmente tanto forte da rendere più lucidi quegli occhi. Ci fu un breve – brevissimo – attimo di reticenza. Quello che sembrò suggerirle che non avrebbe dovuto farlo, che Babbo Natale non esiste davvero, che non si accettano le caramelle dagli sconosciuti e chissà quale diavolo era quello che le aveva appena suggerito di mangiare lo stesso cibo che mangiavano i suoi gatti! 

Ma Rose non pensava ad altro che a sua madre che sarebbe tornata ad abbracciarla. Le piccole dita affondarono in quella scatoletta, si appropriò di quella carne, di quella pappetta disgustosa. Chiuse gli occhi, si impose di non respirare oltre quel sentore di pesce pungente e si portò le dita così sporche alla bocca. Iniziò a mangiare e man a mano che mangiava quella pappina immonda, il disgusto iniziale fu presto scardinato dalla delizia avida di un piccolo mostro divorato dal suo stesso desiderio. 

Quando riaprì gli occhi, si rese conto che Velvet e Ziggy l’avevano raggiunta in cucina e questa volta non la guardavano più con gli occhi ferini e crudeli. I due gatti, padroni di quella casa, giravano attorno alla bambina guardandola con circospezione – con sorpresa e con orrore – mentre riconobbero il loro cibo che Rose andava via via trafugando con le dita. Quelle che carpivano e portavano tra le sue piccole labbra e nulla poté fermarla. 

Nemmeno gli occhi di sua madre che finirono su di lei e finalmente videro cosa sua figlia era diventata.

Giugno 2023

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