Ambra Vannoli
Il dono
ANNO 01 | NUMERO 08 | GIU 2023
Se hai un dono non devi sprecarlo, devi accoglierlo.
La sua era una vocazione, non un lavoro. Da quando aveva iniziato con questo impiego si sentiva investita da una missione salvifica, all’inizio di ogni progetto un fuoco le esplodeva dentro e invadeva tutto, un’onda che la spingeva a superare ogni ostacolo, a fare cose che non avrebbe mai neanche pensato.
Questo fuoco che la infiammava dentro, le dava coraggio e un’ incrollabile forza di volontà. Era come se lei entrasse in uno stato in cui si dissociava prima dal mondo, poi da sé stessa. Cambiava modo di percepire, di ragionare e anche di parlare, si faceva decisa, non parlava più a bassa voce, alzava la testa.
Era molto competente in questo mestiere ma l’abilità più preziosa era quella di mettere un freno a certi istinti e richiami, certe pretese del corpo, della ragione nonché della biologia.
Vittoria era una ragazza conforme ai dettami estetici della sua epoca. Snella, di altezza media rispetto ai parametri del contesto demografico in cui viveva, colore degli occhi sul chiaro, capelli biondo freddo. Si rapportava con gli altri in modo cordiale.
Senza avere particolari qualità estetiche, appariva innocente e vulnerabile, categoria che nelle favole viene definita come “principessa in difficoltà”. Questo prototipo solleticava l’attenzione di una parte del sesso maschile, andando a strimpellare le corde di un arcaico ego che cerca solo un’occasione per poter compiere la sua missione di eroe senza paura.
Vittoria era una giovane donna che aveva capito che doveva lavorare con quello che la genetica gli aveva consegnato, valorizzandolo grazie all’esperienza coltivata nella professione e nella vita. Il lavoro richiedeva tempo, attenzione e sopratutto flessibilità, parola chiave in tutto il baraccone che tirava su.
La retribuzione veniva decisa in fase preliminare con i clienti, e riceveva un anticipo più un budget per le varie spese sostenute.
Non aveva orari di lavoro fissi, non esisteva un posto di lavoro specifico, i progetti duravano molti mesi, e a seconda della fase di sviluppo delle task vi era una location diversa.
Lei selezionava accuratamente la clientela, non prendeva ogni progetto che gli si presentava davanti. Nel tempo si era creata una lista di attesa per lavorare con lei cosa che le consentiva di avere il totale controllo su quali clienti prendere in carico. Poter scegliere ed essere al comando era un qualcosa che le dava una piccola morsa di piacere nello stomaco che le rimbalzava sul volto in un sorriso.
Per il calcio d’inizio si sceglieva sempre un bar del centro. La scelta del luogo non era causale, infatti quel posto le permetteva di osservare le persone interagire con la società. Non aveva dei criteri fissi per selezionare, ma a pelle, già dalla prima occhiata capiva chi poteva aver di fronte. Durante questo incontro si parlava di necessità, tempistiche, richieste da parte dei committenti. Verso la fine dava il suo preventivo, non contrattabile. Con tutte le carte sul piatto così prendeva la sua decisione, e con le richieste in mente, procedeva.
Così Vittoria passava alla seconda fase, quella di ricerca e analisi.
L’obbiettivo era avere una lista di candidati performanti e coerenti con le indicazioni dei committenti. In questo step si spostava in spazi di aggregazione sociale.
Ristoranti di lusso, bar, discoteche, pub, eventi culturali notturni, partite di calcetto, librerie, degustazioni di vini; ogni progetto aveva le sue necessità e il suo budget, per proseguire in rispetto dei suddetti parametri doveva essere in grado di capire dove collocarsi per intercettare i suoi candidati.
Nel giro di qualche settimana Vittoria individuava alcuni possibili bersagli e cominciava scrutinarli.
Li studiava in tutto in modo ossessivo: abitudini alimentari, patologie, possibili problemi genetici, occupazione, famiglia di origine, condizione economica e sociale. Li schedava in modo certosino, accumulando una quantità colossale d’informazioni che lei riteneva vitali per poter procedere nel lavoro.
Per avere molti di questi dati le bastava un click, grazie al lavoro di archiviazione dati digitali che faceva per il Ministero della Salute, poteva accedere a una quantità importante di dati.
Nel processo di valutazione bastava poco, un’abitudine, una preferenza, o una fase della vita non particolarmente serena e il nome di un soggetto veniva depennato dalla lista di Vittoria escludendo automaticamente dai giochi il suo portatore. Nessun tentennamento, nessuna clemenza.
Si forma così, a esclusione, una rosa di cinque o sei possibili giocatori.
Conclusa la selezione ora metteva le loro vite ancora di più al microscopio, e per questo li seguiva nella loro quotidianità, nei loro luoghi, nelle loro esistenze, senza mai farsi vedere. In questi giorni Vittoria era in completa estasi, vedeva il suo piano prendere forma, e quella forma era data dal suo volere.
Le succedeva di essere sempre più irrequieta, dormiva poco ma non ne sentiva il peso. Qui il fuoco sacro che le bruciava dentro prendeva completamente il sopravvento mangiando sempre più quello che è la Vittoria al di fuori da questo gioco.
Una volta che aveva una visione esaustiva creava una classifica assegnando dei voti in base a determinati criteri oggettivi.
Colui che aveva il punteggio finale più alto diventava il target numero uno, e così procedeva alla fase operativa. Al minimo intoppo passava al secondo con il punteggio più alto. Doveva essere flessibile in questi passaggi. Aveva imparato, a sue spese, che non si giocava una partita con una sola carta, ma se ne tenevano anche altre in mano, pronte a esserle utili per chiudere in bellezza.
Il lavoro di ricerca doveva prepararla al momento cruciale. Altre professioniste trascuravano questa parte infatti offrivano servizi mediocri e di bassa qualità, dove tutto è assegnato al caso, ma lei no, scacciava la causalità e ne prendeva il posto.
Con il target in mente preparava la collisione non tralasciando i dettagli. Per il candidato pensava a vari scenari dove poter far iniziare un incontro.
Curata la parte del soggetto, si concentrava su se stessa. Doveva allinearsi il tempo giusto per Vittoria affinché lei stessa doveva essere predisposta per portare a termine l’operazione. Il tempo era poco, ogni mese si apriva una finestra di 3-5 giorni in cui le probabilità di concludere il lavoro erano maggiori. All’avvicinarsi di quei giorni Vittoria si doveva muovere veloce, quel tempo prezioso passava in fretta e sprecarlo significava accumulare ritardi sulla consegna.
Era diventata molto sensibile al riguardo, conosceva bene i segni premonitori di quei giorni, sentiva il suo corpo rispondere in modo diverso. Usava dei dispositivi che rivelavano se quel momento stava arrivando. Bastava una traccia di sé su un bastoncino, e quello come un oracolo le dava una risposta.
Così Vittoria con tutta la sua cattedrale di pianificazione pronta e i pianeti allineati, non poteva fare altro che agire.
Ora c’era spazio solo per la collisione. Usciva e attendeva l’ignaro bersaglio.
Con la sua fisicità conforme all’immaginario del desiderio maschile, e la sua competenza raramente andava a secco. Gli anni di teatro non erano stati una perdita di tempo come sua madre le aveva recriminato. Anzi il bagaglio che le avevano lasciato era diventato come un prezioso coltellino svizzero, che usava per improvvisare e diventare, per un momento, quello che l’altro poteva volere, mettendo a tacere se stessa e diventando un’altra.
Sapeva farsi vedere, conquistare, sembrava una preda ma in realtà era una burattinaia. Muoveva i fili per concludere quella fase del lavoro, non forzava la mano, convincendo l’altro di essere in controllo. Ma era sempre lei e solo lei che teneva le redini, non il cavallo.
Il contatto avveniva in vari modi, a volte uno sguardo, un «Ciao», un sorriso. Poi una scintilla scoppiava, una possibilità, a cui l’istinto non si tirava indietro, diventata reale. Si scatenava così un desiderio, lei buttava l’amo e tirava su la preda.
Uno dei punti cruciali era l’alcol. Un drink addolcisce le notti con il suo effetto vasodilatatore, calma i nervi, rende il coito più spensierato. Lui doveva bere ma non troppo.Vittoria sapeva che certi livelli di alcol in corpo potevano danneggiare la performance. Il livello alcolemico non doveva salire i 0,5 e lei vigilava su questo.
Una volta che Vittoria accertava che l’obiettivo era pronto, proponeva al candidato di spostarsi verso un luogo più appartato.
Si scivola verso nucleo centrale di questa fase: il coito.
Per la performance, momento delicatissimo, affittava un bilocale su un classico sito a uso di turisti per la locazione di soggiorni brevi.
Selezionava sempre un posto diverso della città, ma che doveva avere un aspetto specifico, nella confusione della notte doveva far pensare davvero a una casa abitata da una giovane donna, e non a una sterile camera di hotel.
Si aiutava lasciando in giro qualche vestito, libri, una tazza a pois, delle pantofole orrende, assorbenti in bella vista, dei piatti sporchi nel lavello; tutte cose che sapevano di quotidianità.
A tarda ora, loro entravano in casa e li si consumava il momento.
Appena varcava la porta della casa si avviava un meccanismo in lei in cui si scollegava dal suo corpo, e la sua mente fluttuava sopra di esso. Vittoria si guardava da fuori, dissociandosi dai movimenti, dai baci, dalle carezze, dalle parole.
Assicurava al candidato che prendeva tutte le precauzioni del caso, quindi lui si abbandonava all’impeto. Lei imponeva la posizione del missionario, che statisticamente si rivelava più efficace per il raggiungimento del goal.
Chiudeva sempre gli occhi quando iniziava il momento, a volte il corpo voleva scappare e le saliva una sensazione di nausea a ogni contatto, ma la mente era inflessibile, non permetteva scampo.
Finito il coito, porgeva dell’acqua con un po’ di calmante insapore e la controparte crollava. A quel punto lei dava vita a un suo rituale. Vittoria era una donna razionale, ma comunque la faceva sentire più tranquilla mettersi con le gambe all’aria, non lavarsi le zone intime sul momento e bere un bicchiere di latte e menta che teneva nel frigo, in attesa.
La luce del mattino bussava sulle finestre, e silenziosa Vittoria scivolava via. Il candidato si risvegliava un po’ troppo intontito per una notte del genere, con un biglietto vicino sul cuscino: «Sono andata a lavoro, c’è del caffè, quando esci chiuditi la porta dietro, ecco il mio numero…»
Il prescelto obbediva sempre, forse perché leggermente stordito. Vittoria ritornava ore dopo nell’appartamento, apriva le finestre, sistemava e lasciava a chiave.
Così come era entrata usciva dalla via del soggetto. C’è stato qualcuno che ha provato mandare un messaggio a quella ragazza, ma il numero era inesistente. Se tornavano a citofonare in quel posto non trovavano chi cercavano. Ma nessuno arrivava a tanto.
Incontri casuali, senza troppo impegno e senza apparenti conseguenze.
Così il ruolo del prescelto terminava, e iniziava il momento dell’attesa. Un’attesa febbrile, di consapevolezza che non doveva trasformarsi in ansia perché rilasciare ormoni non benefici, come il cortisolo, non era positivo sulla riuscita del lavoro.
Quello era il momento in cui Vittoria doveva concentrarsi totalmente su se stessa. Mangiare bene, dormire al meglio, prendere un po’ di sole per la vitamina D e fare cose che le davano belle sensazioni. Da li ogni giorno poteva essere rivelatorio. Vittoria era un vero portento, un talento naturale. Sbagliava obbiettivo raramente, era una vera professionista.
Faceva il primo test a casa, poi uno in ospedale di conferma. Ma non ufficialmente, allungava qualche banconota a Ermanno del laboratorio analisi e di sottobanco otteneva con tutta la privacy del mondo le sue risposte.
Se la risposta era quella auspicata, contattava i committenti e iniziava la fase della pace. In caso negativo ripartiva dalla fase della collisione coinvolgendo però il secondo candidato in lista con il punteggio più alto. Ma questo era successo solo una volta.
Nella fase della pace i primi tempi scorrevano quieti, magari con qualche fastidio, ma tutto era sopportabile.
Doveva solo preoccuparsi di non farsi vedere troppo, cosa che le veniva facile, non aveva una rete sociale e la famiglia era molto lontana.
Nel suo lavoro a distanza bastava una chiamata a settimana, senza troppo coinvolgimento, cosi poteva rintanarsi nella sua beatitudine.
Viveva questo lungo tempo rigorosamente da sola, investita da un senso di beatitudine.
Ogni mattina si guardava allo specchio, vedeva il suo essere brillare di una luce propria, e a voce alta si chiamava «Dea».
Il tempo scorreva e quando sentiva qualcosa di nuovo nel suo corpo, entrava nel momento del distacco. Si convinceva così di aver mangiato un pesce rosso che prima o poi sarebbe andato via. Un pesce brutto e viscido, che le nuotata nella pancia come in una boccia.
Un pesciolino che si nutriva delle sue emozioni umane, è più lo mangiava e più cresceva. Quella cosa pian piano sguazzava sempre più, ma con un po’ di tempo e pazienza sarebbe uscito dalle sue viscere, e lei si sarebbe liberata di quel fastidio.
Si ripeteva con tanta forza che provava solo un’emozione: la soddisfazione per un progetto che andava a gonfie vele. Era una Dea, potente, infallibile e misericordiosa.
Di tanto in tanto faceva dei controlli per assicurarsi che tutto andasse bene. Non scendeva troppo nei dettagli.
Fin quando arrivava il momento in cui il pesce rosso bussava alla porta della vita. In Svizzera c’era una clinica privata discreta. Con poteva portare a termine il suo dovere con la massima privacy, la spesa faceva parte del preventivo che chi le commissionava il lavoro doveva farsi carico di pagare.
In una stanzetta luminosa si preparava al momento, di solito in compagnia dei clienti che potevano assistere alla fine di quel viaggio.
Si procedeva con l’iniezione di anestetico, un po’ di spinte, del sudore e via il pesce saltava fuori, usciva per sempre e non lo avrebbe rivisto mai più.
Il giorno stesso incassava il suo compenso, vedeva i suoi clienti invasi da una gioia che quasi si poteva toccare. Nessuna cosa al mondo le dava l’estasi di quel giorno. Era piena di luce, piena di tutto il mondo, e questo lo aveva creato lei.
Così Vittoria restava di nuovo sola con se stessa.
Nei giorni successivi una morsa dentro la prendeva, non capiva mai perché. Le passava il sorriso, il godimento per l’opera conclusa spariva, passava giorni interi a dormire, non voleva mai uscire di casa, mangiava con voracità tutto quello che trovava, le cose che solitamente le davano gioia per un po’ le sembravano stupide e tristi.
Sentiva come di aver preso qualcosa, ma lei era tutta intera, non si faceva domande. Ci metteva un po’, dei mesi, ma poi tornava alla carica.
Di media dopo più di dodici mesi di solito finiva il progetto. Si prendeva qualche mese di pausa e Vittoria era pronta a prendere una nuova comanda.
Dopo tutto aveva una lista di attesa.
Giugno 2023