Marco Peluso
Il profumo dei pastelli
ANNO 01 | NUMERO 09 | LUG 2023
Bianca stava inginocchiata sul marciapiede e tendeva la mano verso persone frettolose, le vetrine dei negozi erano addobbate a festa. Ogni volta che incrociava uno sguardo sembrava bisbigliasse una triste novena.
Una moneta le sfiorò la mano e cadde a terra. Lei mosse appena le labbra, osservò di sottecchi una famiglia entrare in un negozio di giocattoli.
«Mamma, dici a Babbo Natale di portarmi questo?»
Bianca serrò gli occhi, la mano ancora tesa in avanti.
Da quando sua madre Crina era morta, nessuno a Natale le aveva fatto più un regalo. Non era più esistito neppure un Natale.
Alzò lo sguardo al cielo, dalle finestre degli appartamenti brillavano alberi di Natale e festoni. Le osservava ogni giorno, aveva imparato le abitudini di persone divenute la sua invisibile famiglia.
Erano quasi le cinque, il vecchio al secondo piano di un antico palazzo costruiva un modellino di veliero. Qualche balcone più in là una donna dai capelli arruffati gironzolava in cucina e strepitava al telefono. L’inquilino del terzo piano era appena rientrato e come sempre gli erano caduti di mano plichi di fogli.
Urlava e si dimenava come una scimmia in giacca e cravatta.
Come ogni volta Bianca avrebbe voluto ridere, ma sapeva di non poterlo fare. Suo padre l’avrebbe riempita di botte.
Spostò lo sguardo verso il primo piano. La finestra era accesa, alla scrivania sedeva una ragazza, aveva la testa china su di un quaderno, i capelli dorati precipitavano sui fogli come un manto di seta.
Sorrideva e non smetteva di scrivere. Bianca la fissava come fosse una Madonna. La spiava ogni giorno. Alcune volte l’osservava uscire dall’università, poi tornava a casa e iniziava subito a scrivere.
A un tratto incrociò gli occhi della ragazza e la vide sorridere.
Intimorita, voltò subito lo sguardo. Avrebbe voluto tornare a guardarla, assicurarsi che non si fosse sbagliata, ma il rintocco del campanile la fece destare.
Infilò i soldi in uno zainetto logoro e a testa bassa s’incamminò tra un oceano di volti. Lasciò il Corso Umberto e svoltò in una traversa, filando di vicolo in vicolo. Attorno a lei palazzi decrepiti, sopra la sua testa una ragnatela di zinco si diramava da un balcone all’altro, facendo penzolare abiti bagnati. Di tanto in tanto sfrecciava un motorino, qualche cinese scaricava scatoloni da un camioncino e da un internet point provenivano urla in arabo.
Corse veloce a casa e fu accolta dai colpi di tosse di suo padre, Dragomir. Sedeva al tavolo nel tinello e aveva i pantaloni sbottonati, ovunque erano sparse bottiglie vuote e a terra c’erano mozziconi di sigaretta, fazzolettini sporchi e scatarri.
Lo vide portare la bottiglia di birra alla bocca e scrutarla avanzare verso il divano su cui era allettata nonna Dumitra. Si chinò su di lei, le sorrise e le accarezzò i cappelli umidi di sudore.
«Bunică?» sussurrò.
Ma sua nonna non la vedeva neppure, aveva gli occhi pallidi, fissi al soffitto.
Bianca le baciò la fronte, ma un rutto di suo padre la fece voltare di colpo.
Rossa in viso, si tirò in piedi e avanzò verso lui.
«Ma vuoi che muoia?»
Suo padre non la guardò neanche. Continuava a bere, gli occhi persi nel vuoto.
Al di là di un drappo si udì una timida voce.
«Bianca…»
Bianca si girò fulminea. Nuta era sull’uscio, in pigiama e con dei disegni in mano.
Corse verso sua sorella, l’afferrò e la tirò su.
«Comoara mea» le sussurrò: i loro volti uniti, le labbra vicine.
Le accarezzò i riccioli castani e le diede un bacio sulla fronte.
«Andiamo a disegnare, che dopo Bianca tua ti prepara la cena.»
Nuta sorrise. Bianca, invece, avrebbe voluto piangere. Sentiva dietro di sé la presenza gigantesca di suo padre.
Entrata nell’altra stanza, adagiò sua sorella sul loro letto, poco distante da quello di Dragomir.
Le baciò la fronte.
«Dai, ora fammi un bel disegno. Io vado a preparare la cena.»
Nuta sorrise e iniziò a colorare di rosso un coccodrillo.
Bianca tornò in cucina. Nonna Dumitra russava pesantemente e suo padre fissava con occhi torpidi cinque birre vuote sul tavolo.
Bianca tirò su la lampo della felpa e andò verso il lavello. Sbatté le pentole nel lavandino e iniziò a pulirle con foga, quasi volesse con quel fracasso coprire la presenza di suo padre. Poi prese a cucinare il Ciorbă, come sua madre le aveva insegnato.
Avrebbe voluto pensare solo a lei, ai giorni in cui sorridevano insieme, ma lo sguardo di suo padre le impediva di pensare, persino di respirare.
Con un gesto ferino gettò il mestolo nella pentola e si voltò verso suo padre.
«Ma capisci che sta male?» strepitò, indicando la nonna.
Dragomir si limitò a portare la bottiglia alla bocca.
«E chi la porta in ospedale, tu?»
Sorrise e sputò a terra.
«Idiot!» borbottò.
Bianca si voltò e riprese a cucinare. Girava il mestolo e sentiva le lacrime cadere nel Ciorbă, ma le asciugò subito: sapeva che se suo padre le avesse viste l’avrebbe presa a schiaffi.
Guardò nonna Dumitra, le sembrava di vedere sua madre in quello stesso letto, ne sentiva persino la voce, sempre più flebile: «È soltanto un po’ di febbre.»
Era troppo tardi quando l’avevano accompagnata in ospedale. Erano stati i vicini a farlo, suo padre non aveva mosso un dito. Era rimasto seduto a bere.
***
A tavola, Nuta sedeva accanto a Blanca e tra un boccone e un altro disegnava, mentre lei osservava di nascosto suo padre ingozzarsi e bere vino: pensava ancora a sua nonna, immaginava il giorno in cui l’avrebbe trovata immobile, occhi e bocca spalancati. Morta.
Finita la cena, Dragomir uscì e loro due rimasero con la nonna, sedute al suo fianco. Bianca accarezzava i capelli di Nuta, rannicchiata a finire un disegno. Le sembrava di aver preso il posto di sua madre.
Nuta sorrise e le mostrò un ippopotamo colorato di rosa.
«Ittopotamo»
«Ippopotamo» replicò lei, baciandole la fronte.
Nuta guardò il disegno, poi Bianca. Mosse le labbra, impacciata, e infine esclamò ridente: «Ippopotamo!»
Bianca la strinse forte. Nuta rideva, le sussurrò contro le labbra: «E nella lingua di mamma come si dice ittopo… ippopotamo?»
Di colpo le pupille di Bianca divennero lucide. Serrò gli occhi e le diede un bacio sulle labbra, sussurrandole contro la bocca: «Hippo.»
Nuta scoppiò a ridere, ancora stretta a lei.
«Hippo! Hippo!»
Entrambe precipitarono sul letto, ma a un tratto Nuta, confusa, posò lo sguardo su sua nonna.
La scosse con la mano.
«Nonna, quando ti svegli?»
Bianca chiuse gli occhi, con un sorriso soffocò le lacrime.
«Vieni, lasciamo dormire nonna.»
Andarono nella loro camera, a letto. Bianca guardava Nuta disegnare e l’accarezzava, cercava di respirarne il profumo e dimenticare il fetore di fumo e sudore che regnava nella stanza.
Prima che sua sorella si addormentasse la sentì sussurrare: «Mamă…»
La baciò, prese un quaderno e una penna dal proprio zainetto e si chiuse in bagno.
Rannicchiata sul pavimento iniziò a scrivere.
“Liliana sipiava la città da un finestrino. Si sentiva come la principessa di una delle favole che le raccontava sua madre, ma sapeva di essere solo una schiava…”
Era stata sua madre a insegnarle a scrivere in italiano, ogni sera le leggeva un libro: Anna Karenina era il suo preferito, lo conservava sotto al letto di sua nonna, nascosto assieme ad altri libri. Sperava un giorno di leggerli a Nuta.
Dopo qualche ora sentì suo padre rincasare: tossiva, sembrava barcollasse.
Non fece in tempo a uscire che Dragomir picchiò contro la porta:
«Tu vuoi uscire o no, maledetta!»
Bianca, in fretta, nascose il quaderno nel pantalone e, pallida in viso, aprì la porta.
Suo padre con uno schiaffo la rovesciò a terra.
«Tu finito di consumare acqua?»
Sbatté la porta dietro di sé. Bianca si tirò su lentamente, raggiunse la propria camera e si stese accanto a sua sorella.
Serrò gli occhi per non piangere. La mano di Nuta le scivolò sul viso.
«Ti ha fatto male?»
Lei la strinse forte, una lacrime le rigò il volto.
«No amore, dormi…»
Il pomeriggio seguente, Bianca era di nuovo in strada, sin dal mattino. Il cielo scuriva, le luci natalizie iniziavano ad avvolgere tutto, la sua mano infreddolita tesa verso la gente.
Una moneta le cadde in un palmo, mosse le labbra e alzò appena lo sguardo, ma davanti a lei solo persone che camminavano a passo svelto.
Sollevò il capo, la luce al secondo piano si era appena accesa, il vecchio come sempre lavorava al suo veliero, mentre la donna dai capelli arruffati girava nervosa nella cucina e urlava al telefono e il ragazzo in giacca scalpitava contro alcuni fogli sul pavimento.
A un tratto avvertì una moneta caderle in mano. Mosse d’istinto le labbra, non si curò neanche di guardare.
Poi un profumo di zucchero filato la fece trasalire.
Davanti a lei c’era la ragazza del primo piano, talmente bella da apparire impalpabile. Le si chinò davanti, sotto al braccio stringeva dei libri.
Bianca tremava, non l’aveva mai vista così da vicino.
«Ma stai sempre qui?»
Bianca avrebbe voluto dirle tante cose, ma le labbra erano serrate in un timido sorriso.
Gli occhi le caddero subito sui libri, li fissava come fossero un tesoro.
La ragazza sorrise.
«Ti piacciono i libri? Dovresti studiare pure tu, lo sai?»
Bianca avrebbe tanto voluto afferrarle le spalle e urlare, supplicarla di portarla con sé, lei e Nuta. Ma strinse solo il pugno in cui serrava la moneta.
«Cerca di mangiare qualcosa, okay?»
Non altro.
La vide svanire nel palazzo, poi la luce dell’appartamento accendersi.
Lentamente aprì la mano, osservò la moneta e la mise in tasca, lontana dalle altre.
***
A casa, suo padre non c’era. La tosse di sua nonna s’intrecciava a una canzoncina cantata da Nuta nell’altra stanza.
Bianca bagnò uno straccio e andò da sua nonna: aveva il volto imperlato di sudore, tremava, il respiro era febbricitante.
«Bunică, sunt aici…»
Bianca le strinse la mano e se la portò al viso.
«Bunică, ma simti?»
Ma sua nonna non disse nulla.
Bianca le diede ancora un bacio sulla fronte, poi andò nell’altra camera e trovò Nuta stesa a letto: canticchiava e colorava.
Si gettò su di lei e le baciò il viso più volte.
Nuta rideva e si rigirava fra le sue braccia.
«Mi fai il solletico!»
All’improvviso si udì la porta di casa sbattere, le labbra di Bianca si paralizzarono, la voce di sua sorella era lontana.
Udì dei passi, poi grida in dialetto Rom, una bottiglia fracassata al suolo, una sedia sfasciata contro al muro.
Serrò gli occhi, come se bastasse a sparire. Le urla erano sempre più vicine.
Nuta, stretta a lei, continuava a disegnare, ma il profumo dei pastelli era sovrastato dalla puzza della paura.
La tenda si spostò di netto e Dragomir avanzò veloce, afferrò Nuta per un braccio e la trascinò via.
Bianca ne incrociò a malapena lo sguardo prima che sparisse, si sforzava di non piangere, sperava solo che lei non capisse.
Abbassò lo sguardo: stavolta c’erano i pastelli a terra, l’ultima volta aveva visto dei pupazzi.
Sentì dei passi, forse erano in due, le sembrava di riconoscere le voci, le risate.
Chiuse gli occhi. Sapeva solo di non doverli aprire.
***
Il giorno dopo era di nuovo in strada. La notte prima aveva scritto di una bambina che costruiva giocattoli con oggetti raccolti dai rifiuti, ma nessuno li voleva.
Sentì una moneta caderle in mano. Non alzò neanche lo sguardo né mosse le labbra. Non guardò neppure il solito palazzo benché fossero le cinque passate.
Strinse il pugno in una tasca della giacca, tirò fuori la moneta ricevuta dalla ragazza e fece per lanciarla via, ma a un tratto avvertì un profumo di zucchero filato avvolgerla.
Digrignò i denti. Voleva che quell’odore svanisse assieme a tutto.
La ragazza era davanti a lei e sorrideva.
Bianca strinse la moneta e infilò la mano in tasca e alzò gli occhi, ora duri e privi di tristezza.
La ragazza sorrideva ancora.
«Ciao tesoro, come stai oggi?»
Allungò la mano verso Bianca, ma lei con uno schiaffo gliela gettò via.
La ragazza fissò attonita Bianca. Non sorrideva più. Poi avvertì uno strattone al braccio, la cinghia della borsa spezzarsi.
Urlò, ma Bianca era già in corsa, si muoveva veloce fra persone che la osservavano stupire.
«Fermate quella ladra!»
Corse più veloce, attorno a lei stridevano i clacson delle auto, le urla dei passanti si mischiavano ai canti natalizi provenienti dai negozi.
Poi dei passi, altre urla.
Si voltò, due uomini e un poliziotto la inseguivano.
Continuò a correre, avrebbe voluto che ci fosse sua madre, ma c’erano solo quei passi, sempre più vicini come le urla e gli insulti.
«Fottuta zingara!»
Arrivò a Piazza Garibaldi. Attraversò la strada. Dei fari l’abbagliarono, si udirono sterzate brusche, clacson, grida.
Bianca non aveva più fiato, sentiva le gambe spezzarsi e il cuore battere violento.
Svoltò in un vicolo e uscì di corsa da un altro. Affrettò il passò. Strinse gli occhi e serrò i denti.
Un clacson tuonò nella sua testa, un fascio di luce la paralizzo come se fosse un gattino inerme.
Udì solo una sterzata, un tonfo, poi tutto divenne bianco. Non sentiva neppure il proprio corpo né la mano che tremava sulla borsa riversa sul cemento, come lei. Sentiva solo un brusio di voci, come quando in strada chiedeva l’elemosina, e in un bianco denso vedeva il volto di Nuta.
«Non è colpa mia, si è gettata all’improvviso.»
Bianca mosse le labbra, sussurrò il nome di sua sorella, ma nessuno riuscì a sentirla.
Per un attimo scrutò la borsa e vide dei quaderni aperti, le loro pagine mosse dal vento.
“Mi sento una stupida a essermi presa una cotta per un tipo come Gabriele. Ma lui è così figo!”
Sorrise. Una lacrima le segnò il volto e chiuse gli occhi. La moneta le cadde di mano, fino a ruzzolare in un tombino.
Mosse appena le labbra, sussurrò un nome, ma nessuno la sentiva. Dal suo zaino fuoriuscivano dei quaderni pieni di una scrittura minuta, calpestati dalle persone che le si accalcavano attorno.
Luglio 2023