Andrea Cabras

L'aeroporto

ANNO 01 | NUMERO 09 | LUG 2023

La natura è meravigliosa. Se semini le mazzette giuste, dopo un po’ di tempo crescono cose bellissime. A volte un palazzo di sei piani, altre un centro commerciale. Fuori dal mio paese spuntò un aeroporto. C’era tutto: una pista di atterraggio asfaltata che finiva direttamente sulla spiaggia, un paio di hangar, qualche terminal, una bella fila di mezzi antincendio fermi a cuocere al sole. Vennero a inaugurarlo, tutti abbronzati, per poi non usarlo mai più. 

Assunsero comunque un guardiano. Era un omone gigantesco, che tutti chiamavano De Niro. Si vestiva da un guardaroba infinito di tute da meccanico, e aveva la faccia che avrebbe avuto – appunto – De Niro, se invece dell’attore avesse fatto da custode ad un ecomostro. 

De Niro adorava l’aeroporto, e lo teneva come un museo. Spazzava i parcheggi, puliva gli uffici mai usati, toglieva le erbacce dalla pista, dava una mano di bianco ai terminal. Lavorava da mattina a sera, ogni giorno. Poi andava al bar e chiedeva una birra da 66, con la sua faccia da Taxi Driver. Se era di buonumore e glielo chiedevi nel modo giusto, ti diceva roba tipo «Sei solo chiacchiere e distintivo!», con l’occhio semichiuso, la voce alla Amendola e tutto quanto. Se era di umore migliore, ti raccontava della sua vita passata da aviatore, raccontandoti degli aeroporti che aveva visto, degli aerei che aveva pilotato. Poi si rabbuiava, e ricordava di quando gli avevano levato il brevetto, per quella volta che era decollato senza autorizzazione per impressionare una tipa che aveva appena conosciuto, il monomotore carico di bottiglie perlopiù vuote. Diceva sempre che prima o poi un aereo lo avrebbe ripreso, fosse stato pure un aliante. Un po’ ci credevamo, un po’ no. Ma sentirlo parlare nelle sue giornate buone era uno dei pochi intrattenimenti al bar, tolte le partite alla domenica in TV. Tornava poi con il suo Califfone sfasciato all’aeroporto, e si chiudeva in un hangar. Chi aveva la casa nelle campagne vicine diceva di sentirlo trafficare, cantare e urlare cose irripetibili fino a tarda notte. 

Un giorno, scoprimmo che l’aeroporto era stato venduto. Era un’azienda tedesca che voleva farci un impianto da cui far partire voli per fare paracadutismo. Vennero con un grosso Mercedes beige a dire a De Niro che, nonostante apprezzassero tantissimo il suo lavoro per tenere quel posto in piedi, era ormai anziano e lì avrebbero portato roba costosa, quindi avrebbero assunto un’agenzia di vigilanza professionale.

«Vai in pensione, non sei felice?»

Ma De Niro non sembrò esserne tanto felice. Da quando arrivarono i tedeschi, si fece vedere in giro sempre di meno. Per un paio di volte, sparì per così tanto tempo che si iniziò a darlo per morto, fino a quando non ricompariva al bar ricoperto di grasso, dalla testa ai piedi. Beveva qualche 66, tirava, a richiesta, qualche «Stai parlando con me?» e spariva sul suo Califfone. 

La mattina dell’arrivo dei tedeschi per i primi lavori, il paese venne svegliato da un vecchio aereo da turismo che sorvolò i tetti. Quando gli operai entrarono nell’aeroporto, di De Niro era rimasto il Califfone poggiato dentro il terminal arrivi e un mucchio di attrezzi pieni di grasso nell’hangar.

Della fine che fece De Niro se ne parla ancora, in paese. C’è chi dice sia precipitato nel Tirreno, con qualunque cosa fosse quel trabiccolo. Altri che sia atterrato in Tunisia, e ora stia girando con un altro motorino scassato, a raccontare in giro nei bar di quando fece il volo inaugurale di un aeroporto con un aereo che aveva aggiustato con le sue mani, ogni notte. 

Luglio 2023

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