MIRO CRUCIANI​

Slaughterhouse!

ANNO 01 | NUMERO 09 | LUG 2023

«Signora Carter, vorrei che lei mi parlasse del suo lavoro al mattatoio,» disse il dottor Parker, scarabocchiando con la penna il retro di una vecchia fotocopia, incapace di sopportare lo sguardo ferino di Miss Carter. «Dovrebbe cercare di mettere in luce le sue emozioni e le esperienze che hanno lasciato in lei una qualche traccia. Pensa di poterlo fare?»

Miss Carter sbuffò e diresse il suo sguardo verso i dinoccolati casellari che riempivano lo studio.

«Non saprei da dove iniziare.»

«Incominci dall’inizio. Svolgeva qualche altro lavoro prima?»

La donna tamburellò con l’unghia sulla scrivania, annuendo freneticamente.

«Facevo la cameriera al Barrels & Amps. Mi piaceva quel lavoro. Voglio dire, se solo quella grandissima testa di cazzo del mio ex non mi fosse venuto dentro, sarei rimasta più che volentieri a lavorarci là dentro. Invece sono rimasta incinta e ho dovuto cercarmi altro, sa, per mia figlia. Per lei pretendo una buona assicurazione sanitaria, una buona scuola, tutte queste cose qua, no? Da quel gigantesco coglione del padre non c’era da aspettarsi nulla. In dodici anni, dico, in dodici anni, avessimo visto un dollaro. Sa cosa fa lo stronzo adesso? Ho incontrato sua madre al supermercato, poche settimane fa, e me l’ha detto: la merda vive in Florida e vende riviste sportive porta a porta. Meglio così, davvero, meglio che uno stronzo del genere stia alla larga da me e da mia figlia.»

Il dottore prese fiato per interrompere Miss Carter, ma lei lo precedette.

«Sto divagando, sì: ha ragione. Be’ sì, insomma, ho fatto il colloquio per lavorare al mattatoio Tyron e mi hanno assunta. Cosa vuole che le dica?»

Lo psichiatra disegnò cerchi per aria con la penna, alla ricerca delle parole giuste.

«Be’, ad esempio: come si è trovata inizialmente?»

E chi se lo ricorda più, sono passati anni. Lo so che sembro ancora una ragazzina!» Miss Carter sbottò in una risata forzata, poi restò in silenzio per un po’, a fissare il vuoto con aria disgustata. «Non è stato subito facile; voglio dire, all’inizio quei dannati porcelli mi mettevano in difficoltà, pensavo che non capivano un cazzo e invece capiscono, capiscono bene quello che gli succede. Voglio dire, si agitano, piangono, strillano, cercano di scappare; oppure se ne stanno seduti in un angolo e tremano e non si muovono. Devi dargli tante di quelle legnate per farli muovere, a quelli, che ti vengono i calli alle mani, cazzo. Tutti i giorni a qualcuno viene la tendinite o la sindrome del tunnel carpale, lì da noi. Non solo questo, voglio dire, quei porcelli mi facevano anche pena. Mi ricordo che Oscar mi diceva: “Lo sai ai polli che gli fanno? Li spennano vivi! Se lavoravi coi polli cosa facevi?”»

Miss Carter si bloccò, fissando il dottore con gli occhi spalancati. Di colpo abbassò lo sguardo.

«I colleghi, all’inizio, mi prendevano un po’ di mira, per farmi sbloccare. Mi lanciavano addosso zampe, teste, cose così, niente di più; ma una volta, tornando dal cesso, do un morso al mio panino e sento in mezzo ai denti qualcosa di viscido, di schifoso. Indovina cosa ci avevano ficcato dentro? Un cazzo di occhio di porco! Ho fatto una bella scenata quella volta.» 

Lanciò al dottore uno sguardo minaccioso.

«Oh sì, io se mi incazzo divento una belva.»

Le si allargò un ghigno. 

«Era stato Albert, uno stronzo tale che mi chiedo come mai non ci sono finita insieme. Ah-ah. Quel giorno era parecchio ubriaco e gli era venuta l’idea di cavare un occhio a un cucciolo che era morto incastrato nelle grate e di infilarmelo nel panino. “Ti denuncio”, gli urlavo, “ti denuncio come dovrebbe fare tua moglie!” Gli ho detto così perché, quando viene a lavoro ubriaco, si vanta delle botte che dà a sua moglie. Io mi chiedo cosa possono sopportare, certe donne.

Insomma, gli urlavo “ti denuncio!” e lui continuava a ridere. Non solo lui, anche altri coglioni di colleghi ridevano. Allora sai che ho fatto? C’erano due porcelli, nel corridoio, che stavano tutti accoccolati. Forse una era la madre e l’altro il figlio, perché uno dei due era più grosso. Comunque, ho pensato: “adesso gli faccio vedere che la scorza me la sono già fatta e non ho più bisogno di ricevere ‘sti scherzetti del cazzo”. Ho preso il coltellaccio, ho staccato il porcellino piccolo da quello grosso e l’ho sgozzato. Tutto il sangue è schizzato in faccia alla madre, o quel che era, che poi ha cacciato un urlaccio che più che un porco sembrava un bue. Poi più niente, si è accasciata e niente: è rimasta catatonica. Anche tutti i colleghi stavano tutti zitti, a quel punto. Da lì in poi non mi han più fatto scherzi.»

Miss Carter rimase con un sorriso di compiacimento stampato in volto. Un sorriso poco convinto, che lasciava trasparire una profonda angoscia.

«Comunque non è che fossero tutti così stronzi. Una, ad esempio, l’unica altra donna oltre me, Laura, dice che quelle bestie, nella loro vita precedente, erano persone, persone che hanno fatto i peggiori delitti e che è per questo che ora si sono reincarnate in porci. È buddhista, lei pensa: devono soffrire, così il karma gli si ripulisce.»

La donna restò diversi secondi raccolta in sé stessa. Nella stanza si udiva solo il ronzio della vecchia lampada al neon sul soffitto. Poi ripartì.

«Comunque, almeno lo stipendio era buono, e ci viziavo mia figlia, voglio dire, nel tempo libero. Facciamo molte cose assieme, sa? La porto alle giostre, la porto a fare shopping, o ce ne stiamo a casa e guardiamo un film. I suoi preferiti sono Nemo e Ratatouille. Li so a memoria ormai, quei due cazzo di film. A lei piacciono, dottore?»

«Sì. Continui, la prego.»

Miss Carter sgranò gli occhi, poi proseguì, con un tono diverso, più grave.

«E mai una volta, mi creda, mai una singola volta le ho dato da mangiare carne della Tyron. Voglio dire, il signor Robertson, il nostro capo, quando gli ho domandato se lui, poi, se la mangiasse o no la nostra carne, sa’ cosa mi ha risposto? “Col cazzo”. Poi si è corretto: mi ha spiegato che andava evitata solo e soltanto se – come nel suo caso – ci si volesse tenere in forma per fare sport, altrimenti potevi tranquillamente mangiarla, non ti ammazzava mica. Ma io, che lo vedo tutti i giorni come vivono quelle bestie, a me non viene voglia di far mangiare quella carne a mia figlia, ecco tutto. Per lei voglio il fottuto top.»

La donna tornò a poggiarsi sullo schienale della sedia e respirò profondamente.

«Insomma, questo per dire che in quei primi anni non me la passavo troppo male. È stato da dopo la Crisi che le cose sono cominciate ad andare in merda. Alcuni colleghi si lamentavano del fatto che magari loro padre, che aveva lavorato anche lui nel mattatoio Tyron, guadagnava più di quanto guadagnano loro adesso. Ma soprattutto quella cazzo di ristrutturazione aziendale, voglio dire: ottanta macellazioni ogni quindici minuti. Abbiamo protestato, Cristo, ma non abbiamo ottenuto un cazzo. Alla fine ci siamo abituati. In realtà, alcuni di noi ci han preso proprio gusto. Fatmir, ad esempio, un ventenne albanese, aveva una tecnica che riusciva a farne anche quaranta, ogni cinque minuti. Un ottimo lavoratore, Fatmir. Adesso è ricoverato in reparto psichiatrico. Io l’avevo visto che c’era qualcosa che non andava in lui. Una volta se ne stava lì, in piedi sulla grata, a sgozzare bestie a ritmo speditissimo, come sapeva fare lui, quando improvvisamente si blocca: si era accorto che un porcello era ancora vivo. A quel punto lo vediamo che va fuori di testa, voglio dire, si mette a urlare: “Questo qua è ancora vivo, porca troia! Ce n’è uno vivo!” A terra c’era effettivamente un porco che muoveva le zampette. Fatmir lascia subito cadere il coltello e corre a prendere un tubo di ferro appoggiato al muro. Ricordo di aver notato che lui e il porco avevano gli stessi occhi: rossi, storti, di fuori. Quindi Fatmir raggiunge la bestia, alza la spranga e prende la mira. A quel punto il porcello tira fuori la lingua e si mette a leccare lo stivale di Fatmir, voglio dire: voleva ingraziarselo, il furbetto. E, per un istante, Fatmir è rimasto fermo immobile, con la spranga tenuta in alto, poi ha sferrato il primo colpo. Lì c’è stato lo strano. Voglio dire, forse non col secondo, ma sicuramente col terzo colpo era riuscito a scannarlo, ma lui non smetteva di colpirlo! Ti dico, ci sarà stato oltre un minuto a bastonare quel mucchietto di ossa e cervella. “È morto, scemo,” gli dicevamo, “non lo vedi?”»

Seguì un breve silenzio, durante il quale Miss Carter assunse un’aria imbronciata, vagamente infantile.

«Ora che mi ci fa pensare, dottore, quell’episodio deve avermi un po’ stranita. Nel senso, forse è stato anche per quel motivo che avvenne l’infortunio. Sicuramente ero stanca, voglio dire, avevo i pensieri. Comunque sia, un pomeriggio di qualche settimana dopo, mentre me ne sto in grata a scannare le bestie, sento un dolore tremendo all’attaccatura dell’indice, mi guardo dove mi doleva e vedo il dito che, così, cade penzoloni, attaccato per uno sputo.»

Miss Carter mostrò al dottore il moncherino del dito.

«Non ricordo il prima dell’arrivo dell’ambulanza. In qualche modo, comunque, era arrivato il signor Robertson ed era riuscito a salire sull’ambulanza con me. E non smetteva di parlare agli infermieri, con quella sua parlantina fottuta, mentre loro cercavano di capire se quel dito era ancora riattaccabile o se era già troppo tardi. Gli diceva che lui in genere è scettico con la medicina tradizionale e cerca di prendere meno farmaci possibile. Sicuramente deve essere molto sano, pensai, sano come un pesce. 

Siamo arrivati alla fine, dottore. Il problema vero è stato l’aumento dell’assicurazione sanitaria, quella è stata la vera merda. Ero disperata perché mi ero fatta i conti e mi ero accorta di non potermi più permettere da mangiare; voglio dire, il cibo di qualità che di solito compro a mia figlia. L’unica carne che posso permettermi ora è – indovini – la carne Tyron. Allora mi è venuta l’idea. Ho programmato tutto: per prima cosa, mi sono fatta mettere all’ultimo turno, dopodiché… Vuole che le racconti tutta la storia? L’ho già raccontata una marea di volte ai poliziotti…»

La donna fece cenno con la testa in direzione della porta dello studio medio legale, dietro la quale i due agenti di polizia incaricati l’attendevano, per riportarla in cella.

«Infatti, non serve. Ciò che mi premeva sapere, me l’ha già detto, signora Carter. Grazie, può andare.»

Il dottor Parker sfoderò il suo sorriso formale e strinse la mano mutilata di Miss Carter. Poi aprì la porta, consentendo agli agenti di entrare. I due poliziotti le rimisero le manette ai polsi, sotto lo sguardo incantato di Parker.

«Sappia soltanto, dottore,» Miss Carter si era fermata sull’uscio, «che, se ho fatto quel che ho fatto, è stato solo per dar da mangiare a mia figlia della carne decente. Solo per questo.»

Il dottore lasciò passare quasi un minuto, poi ripose, lentamente, la cartella nel faldone. Il colloquio aveva dato risultati promettenti: andava infatti a confermare i risultati del test psicologico. Era proprio come l’avvocato Bain sperava: la donna era chiaramente vittima di uno scompenso psicotico. Restava da dimostrare che la causa della sua malattia fosse proprio il lavoro al mattatoio Tyron e non una qualsiasi altra, il che sarebbe potuto anche riuscire facile, se non fosse che dall’altra parte dell’aula ci sarebbero stati gli avvocati della Tyron. Eppure, le modalità dell’assassinio sembravano una prova solida: Bain avrebbe dovuto puntare soprattutto su quelle, per sostenere la difesa.

Lo psichiatra riprese il faldone e ne estrasse prima la cartellina della Carter, poi la fotocopia del verbale.

Imputata Jade Carter, di anni 36, accusata di omicidio premeditato (…) Rinvenuto in freezer il corpo fatto a pezzi del sig. Robertson (…) Nella cantina dell’imputata sono stati trovati attrezzi da macellazione. I rilevamenti hanno dimostrato che gli attrezzi sono stati impiegati dall’imputata per uccidere il sig. Robertson utilizzando il metodo che si usa per macellare i maiali nel mattatoio (…) Dopo aver fatto a pezzi la vittima, ne ha cucinato una coscia e l’ha data da mangiare alla figlia.

La sera, il dottor Parker, che in uno dei suoi rari guizzi culinari aveva deciso di prepararsi da mangiare da sé, si recò al supermercato. Scorrendo con lo sguardo il reparto della carne, la sua attenzione fu catturata da una lunga serie di scritte Tyron, appiccicate su altrettante vaschette di carni. Il dottore ne afferrò una. Un ghigno amaro gli si stampò in volto. Non aveva mai fatto caso al logo di quell’azienda: in colori sgargianti, la scritta Tyron andava a incorniciare il disegno di un paffuto maiale, che, con sguardo allegramente malizioso, si leccava i baffi, invitando al consumo di sé stesso.

Luglio 2023

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