Francesco Carmona
Un altro giorno
ANNO 01 | NUMERO 09 | LUG 2023
Era il mio compleanno, l’ennesimo che passavo da solo, un grosso bicchiere di plastica trasparente stava lì, sul tavolo, tra i mozziconi di sigarette e l’immondizia e le penne e altro schifo da cui ero circondato, quasi come a voler prendere lo schifo che c’era fuori e portarmelo dentro, tanto per non perdere l’abitudine di starci in mezzo.
La formula era alquanto semplice ma dannatamente funzionale, versavo un quarto di Vodka da una fiaschetta uscita dal congelatore, era gelida, a stare fuori, in poco tempo si ricopriva di ghiaccio tutto l’esterno della bottiglia, la cosa bella e che la vodka quando è ghiacciata assume una consistenza sciropposa, lo notavo mentre pesante cadevana sul fondo del bicchiere, collosa e trasparenta, poi due dita d’acqua, l’allunga e toglie il sapore forte e acre che si incastra sul palato superiore, infine ci si butta dentro la birra bionda, gialla opaca, come le spighe di grano,fino all’orlo.
Questo era il succo che recideva l’anima e la escludeva da qualsiasi cosa potesse infierire e disturbare il poco caldo torpore rimastogli, per concludere rollai una sigaretta con del vecchio tabacco ormai insapore,secco e pungente.
Il contenuto del bicchiere aveva il colore di miele d’arancio e betulla e sapevo, ormai per esperienza, che ogni sorso di quell’intruglio andava bevuto d’un fiato, senza annusare o gustare, andava buttato giù come una medicina, senza respirare, bisognava scendere in apnea che dopo il primo bicchiere la testa cominciava a girare, e dal palato fin su le narici si faceva strada un sentore dolciastro,un buon segno, stava facendo effetto.
Mentre tenevo in mano la sigaretta e giocavo con il fumo blu e grigio con strisce perlate sugli sbuffi più esterni, guardavo una zanzara posarsi tra il pollice e l’indice sulla mano destra, quella piccola puttana si preparava ad affondare lo sperone nella carne bianca, quasi la vidi tirare indietro la testa, in spasimante estasi, fino allo zaccc , mentre la guardavo riuscì a sentire il flebile pizzico della bocca di lei che si nutriva e iniziava a tirar su il sangue dalla piccola vena.
Rimasi fermo immobile a guardare, prima di sibilare il palmo della mano sinistra che teneva il mezzo mozzicone di sigaretta, come una fionda di bambino, sulla mano destra, dove albergava la piccola suca sangue, la piccola troia, che in fin dei conti non avrebbe potuto uccidermi, ma al ritorno del palmo dalla marcia, non vidi cadaveri di alcun tipo, le era andata bene anche a sto giro.
D’un tratto mi balenò un ricordo in mente, sentii salirlo su dalla spina dorsale, un brivido che percorreva la schiena, vertebra per vertebra sino al cranio, tutto girava intorno, la testa non la sentivo più, il corpo era diventato molle mentre davanti a me balenavano lampi di luce blu e verde e gialli che lasciavano delle scie incise nelle pupille, in bocca sentivo un sapore metallico, il tremore era intenso, tutto diventò intenso e sciolto, la mia pelle divenne grumosa, color porpora, qualcosa mi camminava dentro, cercando di uscire da qualsiasi poro della mia pelle.
Ero a Vigata, quella di Camilleri, che era anche la mia e non solo la sua, nell’aria c’era il solito odore di salsedine e sabbia dolce, che veniva spinto dalla bonaccia calda giù sulla costa fin su le mie narici, il sole stava tramontando e proiettava il mondo intero sull’asfalto e sull’erba giallognola che contornava il paesaggio e le strade di paese, dove brucavano ancora le capre, guidate da un pastore sbronzo e i suoi cani bianchi con il pelo lungo come nuvole che volano troppo basse sulla terra secca e inferma.
L’hotel Africa a quell’ora si animava di ombre conosciute, con una loro memoria, parlavano di persone e di anni vissuti e persi in quei corridoi labirintici, tra le macerie e l’amianto e i graffiti si nascondeva più di ciò che vedevo, noi gironzolavamo e parlavamo, non ricordo di cosa, ma parlavamo e ridevamo, mentre i nostri polmoni aspiravano il fumo di qualche canna, e le birre correvano tra le nostre labbra.
“Oh che fai?”
“Voglio tirare fuori sta roba dalla siringa”
Peppe era irriducibile quando si parlava di fare certe minchiate, in realtà lo eravamo tutti nel gruppo, ricordo che quel giorno c’erano più siringhe del solito all’hotel, si erano dati da fare i tossici, e peppe aveva trovato un modo per far schizzare fuori quel poco di sangue e grumi che rimaneva dentro.
Con meticoloso riguardo iniziò a tenere lo stantuffo inferiore poggiato ad una scarpa, e con l’altra spingeva il bordo della siringa, finché la pressione non faceva saltare via l’ago e tutto ciò che conteneva.
La prima siringa disegnò un Pollock sul muro adiacente, sangue e grumi si schiantarono sul muro bianco e impolverato, lasciando una scia che si apriva sul pavimento, non scorderò mail quell’odore, e i conati di vomito successivo, era come se migliaia di corpi putrefatti risiedessero dentro a quei pochi centilitri di sangue, si fece strada dal naso dritto al cervello, un odore forte, un puzzo di carogna e di marcio che si incise in maniera indelebile nelle mie sinapsi.
Passò la giornata così, a scoppiare siringhe, fottuto pazzo.
Quando fu stanco e non trovò più siringhe da scoppiare rollammo altre due canne, ci appoggiammo nei grandi incavi della terrazza nell’hotel, davanti a noi la meravigliosa piscina, piena di acqua ristagnante e più avanti, dopo lo strapiombo, la statale che passava per Ciuccafa fino al Bellavista e dietro le colline di Porto Empedocle, ricordo ancora le macchie d’ulivo e il terreno grigio e verde e giallo, in contrasto con il cielo cerulo, e a sinistra una gigantesca distesa di oro e mare, stavamo lì, a fumare e a ridere e a parlare e a bere e a dire stronzate, non ci serviva nient’altro.
Mi risvegli a terra, la medicina ha fatto effetto, la testa era diventata un circo e girava ancora tutto, così mi trascinai sul letto in camera, mentre fuori diventa tutto azzurro chiaro, il mattino risvegliava i passeri che con entusiasmo comincianorono a cantare, mentre un nuovo sole rischiarava i loro petti e i polmoni pieni di gioia.
Rimasi fermo a fissare il soffitto, sul tetto vicino alla parte superiore della finestra c’era un ragno, il corpo è piccolo di color fuliggine e le zampe lunghe, con una piegatura e ancorate alla parete, più lo scrutavo e più mi domandavo come facesse ad essere così, come faceva stare bene, così, fermo per ore ed ore.
Noi siamo sempre in cerca del movimento, di un pretesto, di qualcosa che giustifichi l’essere qui ed ora, riluttanti ci accolliamo qualsiasi cosa pur di non stare fermi, perché stare fermi vuol dire essere morti, lui invece, è come se accettasse la morte, come se ne fosse consapevole ma non per questo impaurito, rimango lì a fissarlo, e ripenso al sogno che ho fatto, a come sono cambiate le cose.
“Si sta comodi lassù?”
Il ragno non risponde.
“Non sembra affatto male starsene lì, a penzolare, ma non ti annoi?”
Nessuna risposta.
Luglio 2023