Stefania Micheli

Gli spicci

ANNO 01 | NUMERO 11 | SET 2023

Non so dove sei, né se hai memoria di me. Ero la bambina bionda, la figlia del proprietario dell’albergo sulla via Aurelia, a Roma. Hai lavorato lì nel 1970. Poi mio padre ti ha mandato via. Non avevi un posto dove stare qui, in Italia. Sei ritornato in Marocco credo. 

Quando arrivasti fu un sollievo per tutti. Finalmente qualcuno che si faceva carico dei lavori più pesanti: scaricare e portare in camera i bagagli dei clienti in arrivo, pulire il giardino dalle foglie della magnolia che facevano impazzire mia madre, sturare gli scarichi otturati, riparare le ringhiere pericolanti, fare i turni con il portiere di notte, lavare il cane lupo. Facevi qualsiasi cosa ti chiedessimo. Avevi un nome che non sapevamo pronunciare che iniziava per P. Mio padre ha deciso che ti chiamavi Paolo.

Eri sempre sudato. Io ti dicevo che puzzavi. Però mi piaceva stare con te, ti cercavo.

Avevi una cameretta con un bagno minuscolo a piano terra. Dava sul giardino, lontano da quelle dei clienti, una specie di zona di servizio a ridosso della cucina. Non parlavi molto, ero io a farlo, in una lingua da bambina, che credo ti fosse incomprensibile. Nelle tue ore di riposo dovevi prenderti cura di me perché venivo in camera tua. Non hai mai perso la pazienza. Per me gli adulti erano tutti vecchi, non saprei darti un’età esatta ma tu eri più giovane dei miei genitori che all’epoca avevano venticinque anni. Un ragazzino. Avevi delle fidanzate. Appena potevi ti mettevi sul letto e guardavi delle fotografie sgualcite che tiravi fuori dalle tasche o dal portafoglio. Credo di aver preso la mia passione infantile per le foto da te. Avere delle foto da guardare mi sembrava un gesto bello. Qualcosa che ti dava importanza, dignità, ti dava una storia. Avevi un bel sorriso mentre le guardavi. Ho cominciato a chiederti di mostrarmele. Ho visto una ragazza africana con i vestiti tutti colorati. Lo sfondo sbiadito era un bosco finto sulla parete di una stanza. L’espressione seria e la posa rigida di una persona timida. Gli occhi grandi senza allegria. Ti ho chiesto chi era, hai scosso la testa e basta. Poi ho visto una ragazza bionda in costume al mare, di schiena ma con il viso girato sopra la spalla a mostrare un sorriso ammiccante. 

«Chi è?»

«Amica.»

«La fai venire qui?»

«No.»

Non riuscivo a smettere di pensare a quelle tue ragazze. Volevo che quella con i vestiti colorati ridesse e che l’altra invece ridesse di meno. E volevo che tu mi dicessi quale preferivi, ma se te lo chiedevo diventavi subito triste. Non ti davo pace.

Una mattina sento mio padre che discute. Il cliente si lamenta che il suo passaporto non ha più la foto. Nel cassetto del banco del ricevimento, ci sono tutti i documenti da portare ogni giorno al commissariato per la registrazione. Mio padre sostiene che evidentemente la foto non c’era, che nessuno può averla staccata. Il cliente se ne va imprecando. Mio padre guarda meglio nel cassetto e scopre che tutti i documenti non hanno più la foto, decine di carte di identità e passaporti senza più faccia. Chiama te, mia madre e la cuoca. Io corro su per la scala, vi vedo dall’alto, tra le sbarre della ringhiera.

Nessuno di voi sa niente. 

«Paolo, la scorsa notte eri tu di turno al ricevimento. Sei sicuro?»

Sospettano di te, non so perché. Io scendo e mi metto dietro le tue gambe. Domandano anche a me, se ho visto qualcosa, io dico che non lo so. 

Io e te continuiamo a vederci in camera tutti i giorni. Tu mi fai sentire delle cassette di musica che non mi piacciono per niente, ma quando balli mi diverto da morire. Hai anche dei fumetti, dei librini tipo quelli di Diabolik che legge il papà, però qui ci sono anche le donne nude. Li guardo di nascosto, mentre ti aspetto che finisci di lavorare.

Quando mia madre trova uno di quei librini sotto al mio letto le dico che l’ho preso nella tua stanza. Decide che sto passando troppo tempo con te. Comincia a cercare ogni occasione per portarmi via dall’albergo. Per esempio devo sempre accompagnarla dal parrucchiere, una volta a settimana. Mi ribello, più dico che preferisco stare con te, più mia madre mi porta via. Dal parrucchiere Mario, uno di lusso, a piazza del Pantheon, mi annoio a morte, ma ho trovato un passatempo. Le signore, alla fine della messa in piega, lasciano sempre una moneta sulla consolle vicino alla spazzola, per la ragazza che le ha pettinate. Quelle cinquanta o cento lire rimangono lì incustodite per un sacco di tempo. Io saltello da una poltrona all’altra solo per riuscire a prendere quegli spicci senza che nessuno mi veda. Ne ho accumulati parecchi, nascosti in camera mia. Li conservo in una delle scatole di chicchi di riso colorati del mosaico cinese, insieme alle foto dei documenti.

Un giorno decido di mostrarti tutto, Paolo, per sentirmi grande. Voglio anche io la mia storia segreta. Ti mostro le facce di quelle foto tessera in bianco e nero e di ognuna ti dico che è amico. Invento storie di vacanze insieme al mare o di una festa con pizzette e coca cola o di una gara di corsa per strada. Per la prima volta ti ho sentito ridere forte. Ti ho chiesto di conservare le mie cose lì nella tua stanza. Tu hai messo le foto nel cassetto e gli spicci in un teschio di finto osso che tenevi sul comodino per le tue mance. 

La sera che sono scesa in giardino di nascosto e ho visto la ragazza bionda entrare in camera tua, non so perché, non riuscivo a dormire. Mi sono messa fuori dalla porta, vedevo e sentivo tutto dallo spiraglio che le cerniere lasciavano aperto. Ho visto che prendevi le foto e le raccontavi la mia storia, anche degli spicci rubati dal parrucchiere. La ragazza rideva di me. La foto della ragazza seria con i vestiti colorati però non l’hai tirata fuori. Sono tornata a letto. Mi veniva da piangere.

La mattina a colazione ho detto alla mamma e al papà che mi avevi rubato dei soldi. Sapevo anche dove li avevi messi. E che le foto dei documenti le avevi strappate tu, anche quelle sapevo dove erano. 

Il giorno dopo eri partito. Non sono mai riuscita a salutarti, mi vergognavo. Per tanto tempo il rimorso di quello che ti avevo fatto non mi ha lasciato in pace. Nemmeno ero sicura di averlo davvero fatto io. 

Sono passati cinquant’anni. Non so come ti chiami. Spero che tu abbia avuto una buona vita in Marocco. Forse la bambina che ero voleva solo che tu tornassi dalla ragazza con i vestiti colorati, per farla sorridere. 

Dopo di te i miei hanno preferito assumere un lavoratore a giornata. Le foto staccate dai documenti sono diventate un aneddoto da raccontare ai parenti a Natale per farli ridere. Non ci hanno mai creduto che eri stato tu. Nemmeno degli spicci nel teschio gli importò nulla. Ma hanno trovato la ragazza nel tuo letto. È bastato quello per mandarti via. Non eri una presenza adatta a una piccola di cinque anni. La tua camera da quel giorno è rimasta vuota e io sono diventata una bambina che parlava solo con il suo cane.

Settembre 2023

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