Rossella Baiocchi
La bambina nella scatola
ANNO 01 | NUMERO 11 | SET 2023
Quel giorno nevicava.
Fuori dalla finestra la nebbia aveva inghiottito tutto: si vedevano solo le punte nere dei rami spogli come nel vecchio cimitero di nonna Lucia a Bolgheri nelle umide notti d’inverno, storte punte nere di antiche croci arzigogolate.
Caparbi fiocchi di neve tentavano di aggrapparsi alle finestre abbracciandosi l’uno all’altro.
Piccoli ma coraggiosi.
Faceva freddo e io indossavo solo una maglietta bianca. Sentivo il gelo salire dalle mie caviglie e ramificarsi con prepotenza su tutto il mio corpo. Ero blu.
I segnali c’erano tutti ma io non li avevo colti.
Lo sguardo si lasciava ipnotizzare dai decori di ghiaccio in continua evoluzione sui vetri delle finestre e mentre aspettavo che venissero a chiamarmi per portarmi in sala parto, ripensavo al mese assurdo trascorso in ospedale. Un periodo terribile. Lunghissimo. Dovevo stare a letto con la flebo in vena h 24 altrimenti la mia bambina sarebbe nata, ma non ero ancora di sei mesi.
Le mie braccia erano livide come la mia anima.
In quel periodo fu un susseguirsi di nuove compagne di stanza, di nascite, di morti, decisamente troppe morti, di fiori, di facce felici, di facce tristi. Ero nel limbo tra la gioia più grande e il dolore più oscuro, quello che nessuno dovrebbe mai provare. Ma finalmente il grande giorno era arrivato. L’incubo stava per finire. Sarei tornata a casa con la mia bambina settimina. Non vedevo l’ora.
Alle 11.00 entrai in sala operatoria. La stanza era grigia, fredda e asettica. Il grigio mi perseguitava.
Mi fecero l’epidurale, poi mi misero un telo verde davanti al viso per non farmi vedere, il ginecologo mi spiegava tutto passo passo, non provavo nessun dolore ma sentivo la lama fredda incidermi il ventre e la cosa mi fece rabbrividire, immaginai la carne aprirsi lentamente come l’asola di un bottone e il sangue uscire prepotente. Non capivo quello che stava succedendo, ma a un certo punto il ginecologo apparve da dietro al telo e mi disse: “la bambina non esce, è bloccata sotto le costole da due giri di cordone, se tiriamo rischiamo di farla morire soffocata, l’alternativa è infilare un braccio fin lassù e tagliare il cordone prima di tirarla fuori”.
“Beh, che aspettate? Fatelo!” Dissi terrorizzata, ne avevo viste e passate troppe in quel mese e mezzo non avrei mai sopportato di perdere mia figlia. Non mi sarei ripresa. Mai.
“Ti farà molto male, l’anestesia non arriva fin lassù, devi essere forte”. Mi disse il ginecologo.
“Sono nata forte, non preoccupatevi per me”. Risposi con il cuore che mi tamburellava nel petto all’impazzata. “Pensate solo a lei. Tiratela fuori!”.
Il ginecologo entrò con il braccio proprio come aveva descritto, il dolore fu allucinante, qualcosa di indescrivibile, lo sentivo muoversi tra i miei organi interni, mi sembrava di sentirli toccare tutti uno ad uno, sorrisi pensando al mio corpo come a un enorme flipper con la pallina che tocca tutto per fare punti, ma avrei voluto urlare. Non lo feci, mi sembrava un enorme spreco di energia e poi volevo essere coraggiosa. Finalmente il braccio si fermò, aveva raggiunto la meta. Tagliò il cordone e la bambina cominciò a piangere, sembrava un gattino arrabbiato.
Me la fecero subito vedere, era piccola ma il visino era perfetto, rotondo come una mela. La portarono via e cominciarono a ricucirmi aumentando la morfina, ricordo che sentivo i macchinari suonare e che qualcuno mi diceva “resta con noi, resta con noi “, poi il buio. Quando mi risvegliai il ginecologo mi disse che avevo avuto emorragia interna ma alla fine avevo vinto io. Chiesi della bimba, mi dissero che stava bene, punteggio di apgar 10/10. Era perfetta.
Quando uscii dalla sala operatoria c’erano ancora tutti, mi dissero che la bimba era bellissima e che quando era passata nell’incubatrice stringeva forte tra le mani la camiciola della fortuna. È forte come te!”, mi disse nonna prendendomi la mano.
Per tutto il pomeriggio mio marito entrava e usciva dalla stanza con il cellulare in mano, lo vedevo ma non riuscivo a tenere gli occhi aperti, mi diceva che il telefono era in fiamme, tutti scrivevano per sapere, e per farci gli auguri. Gli credevo.
La sera però, all’ora del passo, vidi entrare nella stanza: mia madre, mia zia, mia nonna, mia suocera, tutte avevano gli occhi gonfi e neri.
Le tenebre si impadronirono del mio corpo e offuscarono la mia mente.
“Cosa ci fate voi qui? Perché avete pianto? Dov’è la bambina?”
Nessuno mi rispondeva. Piangevano e basta. Stavo per impazzire.
Venne l’ostetrica, mi spiegò che la bambina aveva smesso di respirare, erano riusciti a rianimarla ma al momento doveva rimanere attaccata al respiratore.
Mi girai verso mio marito e lo guardai con odio. Come aveva potuto tenermi all’oscuro? La bimba era in pericolo di vita e io non sapevo niente. Con quale diritto?
Mi alzai di scatto e dall’impeto si strapparono tutti i punti, il mio ventre piangeva lacrime rosse. Presi l’ascensore, ero un fascio di sentimenti in movimento: rabbia, paura, odio, amore. Cominciai a bussare come una matta alla porta della terapia intensiva, mi fecero entrare, mi portarono da lei, la vidi: era piccola, tutta nuda, piena di fili e con il respiratore che andava su e giù. Un suono terribile. Un rumore che non avrei mai più dimenticato. Poteva essere il canto della vita tanto spaventoso? Capii perché mio marito non mi aveva detto niente: non potevo toccarla, non potevo stare con lei, guardavo quel piccolo essere vivente che lottava per la vita e non vedevo mia figlia ma solo una bambina nella scatola.
La osservavo con distacco, come se non mi appartenesse, come se non fosse stata dentro di me fino a qualche ora prima. Non volevo affezionarmi. Avevo paura di amarla. Non ero una mamma. Perché non riuscivo a provare empatia? Dov’era finito quello che chiamano istinto materno?
Perché ne ero priva?
I giorni successivi furono anche peggio, dopo la discesa libera dei miei ormoni ero nel caos più totale e i miei demoni interiori banchettavano con le mie emozioni.
Perché non riuscivo a volerle bene? Che razza di mostro ero?
Nessuno poteva capirmi. Nessuno poteva aiutarmi.
Mi dissero di provare a tirarmi il latte ma niente, solo 10 grammi di colostro, anche il seno lacrimava sangue. Non volevo arrendermi ma la montata lattea non arrivò mai. Le altre mamme riuscivano a riempire due biberon alla volta facendolo sembrare la cosa più semplice del mondo. Non per me. Non ero neanche in grado di darle da mangiare.
Mi dissero di stare tranquilla, che avevo subito un cesareo, avevo rischiato di morire e non avevo mai attaccato la bimba al seno, non c’era niente di sbagliato in me, solo una serie di sfortunate coincidenze. Facile da dire per chi non si trovava nel mio limbo.
Qualche giorno dopo mi mandarono a casa. Lei rimase nella scatola. Da sola. Potevo vederla solo 30 minuti al giorno su appuntamento. Non potevo toccarla.
Mente e cuore erano in continua battaglia e nessuno dei due sembra voler cedere, anche i demoni avevano rinunciato a banchettare, giocavano a briscola in attesa di prendere posizione: caos anarchico dei sentimenti.
Mi sentivo vuota, vuota come il mio ventre eppure avevo fatto il pieno di emozioni. Tornai subito a lavorare, dovevo riempire tutte quelle ore di vuoto, non dovevo pensare. Non volevo pensare.
Poi un giorno accadde, ricordo perfettamente il rumore del silenzio. Il respiratore era spento, lei stava respirando da sola, finalmente potevo aprire uno dei due oblò dell’incubatrice per toccarla. Ma non lo feci. Vidi la sua testolina scarabocchiata di capelli, rotonda, perfetta, le manine con le dita lunghissime tutte spellate, il corpo avvolto in un pannolone decisamente troppo grande e mi mancò il coraggio. Tremavo. Non mi sentivo all’altezza. Lei era stata così coraggiosa, aveva lottato per una carezza e io così codarda. Lei era così piccola, grinzosa, con la pelle rossa e la bocca a forma di cuore. Profumava di neonato, borotalco e disinfettante.
La guardavo innamorata, mentre gli occhi affogavano nelle lacrime. Il mio cuore voleva schizzare fuori, lottava con tutte le sue forze per far muovere le mie mani, si arrampicava con prepotenza verso la gola in cerca di una via d’uscita ma niente, ero pietrificata.
Qualche settimana dopo fu trasferita in sub intensiva, finalmente avrei potuto accarezzarla.
Ero senza fiato. Mi sentivo inadeguata. Avevo deciso di non affezionarmi per paura di soffrire, ma lei aveva vinto, aveva lottato per tutt’e due. Mi vergognavo.
Il cielo era grigio, la scatola vuota, la bambina stretta tra le mie braccia.
Bianche lacrime di gioia dal seno.
Settembre 2023