MATTEO PARMIGIANI
L’incubo delle Assicurazioni
ANNO 01 | NUMERO 11 | SET 2023
Non so come ma ero riuscito finalmente a trovare un lavoro. Uno di quelli da fare in giacca e cravatta. M’avevano assunto come “consulente” all’ISA ASSIT. La parola consulente la usavano solo perché faceva figo. Il mio compito era vendere assicurazioni.
«Abbiamo diversi prodotti» m’aveva spiegato il capo della baracca, Ezio Scafia, un ex truzzo che aveva l’aria d’aver passato più tempo in discoteca che a casa. Adesso aveva i capelli grigi e lunghi e li portava all’indietro, schiacciati dal gel. «Il prodotto vita, il prodotto pensione integrativa, il prodotto polizze infortunio. Incendio, fulmini e furto» a metà spiegazione già non lo ascoltavo più.
«Sì, ma quanto è la paga?» lo interruppi.
Rise. «Paga? Qui ognuno è imprenditore di sé stesso.» Un modo elegante per dirmi che me lo stava mettendo nel culo.
«Avrete una percentuale sulle polizze che stipulate.»
Partita Iva, dovevo immaginarlo. Comunque non avendo alternative accettai. La politica dell’azienda era di mandare gli agenti a due a due, come i carabinieri. Mi affiancarono ad Alioscia. Tipo insopportabile, uno di quelli che mentre ti parla continua a toccarti.
«Alioscia? Hai origine russe?» domandai per rompere il ghiaccio.
«Eh?» mi guardò con l’espressione smarrita di un fagiano durante la stagione di caccia. «Ma va. Andiamo a fatturare, dai!» mi diede una pacca sulla spalla invitandomi a seguirlo. Faceva quel lavoro da quasi cinque anni, scoprii anche che non aveva niente a che fare con la Madre Russia. Era di Caronno Pertusella, come suo padre e il padre di suo padre.
Durante la presentazione Scafia m’aveva anche detto come prima cosa di vendere le polizze ai miei famigliari. «È uno scherzo, vero?»
«È per crearti un portafoglio di clienti.»
«Non potete affidarmene uno nuovo?»
«Funziona così: vai dai tuoi, gli vendi la polizza e ti fai dare due nomi di conoscenti. Poi dici ai tuoi di contattare questi conoscenti e dir loro che passerai a proporgli il prodotto. Poi chiedi anche a questi altri di darti due nuovi nomi, ovviamente dopo aver venduto anche a loro la polizza. Gli dici di contattare i due nuovi e che andrai. E avanti così.»
Lo guardai allucinato. «Bella strategia.»
«Noi siamo furbi, ragazzo.»
Così, accompagnato da Alioscia, andai da mio padre e gli proposi una polizza sulla vita.
«Ma sei scemo?»
«Perché, papà? È una cosa importante.» Non ci credevo nemmeno io a quello che dicevo.
«Una polizza sulla vita? Ho ottantaquattro anni.» Si alzò e cominciò a bofonchiare. «Robe da matti.»
Quando lo vidi toccarsi i coglioni dissi ad Alioscia che forse era meglio lasciar perdere.
Fu mentre tornavamo in ufficio che Alioscia cominciò a rivelarmi la sua vera indole naturale.
«Ma tu a figa come sei messo?» mi chiese.
Alzai l’indice e il pollice mimando una pistola e mossi il polso. «Nisba.»
«Stasera io mi vedo con una, ha due tette grosse così e un culo che sembra dipinto da Donatello.»
«Donatello era uno scultore. Se volevi dire che ce l’ha di marmo allora…»
«Seh seh. Comunque stasera me la trapano. Tu?»
«Beh… io… sto valutando alcune cose.»
«Ho capito, va.» Chiuse il pugno e lo mosse avanti e indietro. «Seghe. Devi darti da fare bello mio.»
Aveva ragione. Adesso che col lavoro mi ero sistemato tornava il problema della donna. Chissà perché sentiamo sempre lo strano bisogno di cercare qualcosa.
Quella sera uscii. Vicino al minuscolo monolocale dove ero in affitto c’era uno di quei lounge bar stile newyorkese. Mi sedetti al banco e ordinai una birra. Me ne servirono una che sapeva di acqua e ruggine. La bevvi lentamente, guardandomi intorno. Intravidi una ragazza a un tavolino. Davanti a lei un solo cocktail. Capii che non era accompagnata così le lanciai un’occhiata languida. Nei film funzionavano. Lei mi vide e voltò lo sguardo con un’espressione disgustata. “Bene” mi dissi. “Ci sai proprio fare.”
Il barista, che aveva assistito allo scambio di occhiate si sporse sul bancone verso di me. «Quella non aspetta altro. Vai, offrile da bere.»
«Bah, a me non sembra…»
«Timidone» mi strizzò l’occhio. «Vai.»
Mi alzai e mi diressi verso di lei. A metà strada mi girai verso il barista. Mi guardava e agitava le mani «Vai!»
La raggiunsi. «Posso, ehm…» tossii per schiarirmi la voce.
Mi guardò con pietà.
«Senti» dissi. «Non sono capace di approcciare ma dalle mie parti quando una donna beve da sola, chi la vede deve come minimo offrirle il secondo giro.»
«Ah sì? Dalle mie parti invece se una beve da sola è perché non ha voglia di avere rompicoglioni intorno.»
Servito. Tornai al banco con la coda tra le gambe. Finii la birra e me ne andai.
La mattina dopo Alioscia passò tutto il tempo a raccontarmi delle acrobazie fatte la sera con la tipa. Lo seguivo negli appuntamenti e tra una casa e l’altra si dilungava in minuziosi racconti di come l’avevano fatto. Sul letto, su un mobile, sulla poltrona. Non vendemmo neanche una polizza.
Uscii da lavoro col morale sotto le scarpe. Passeggiai senza meta e quando raggiunsi il naviglio mi infilai in una birreria. Mentre ordinavo una ragazza mi si appoggiò di fianco. «Ehi, biondino.» Sembrava alticcia. La cosa poteva farsi interessante.
«Ciao, biondina.»
«Io ti ho già visto.»
«Dove?»
«ISA ASSIT.»
«Lavoro lì. Vuoi assicurarti?»
«Ero lì per il colloquio, ti ricordi? Eravamo in sei.»
«Mm» alzai gli occhi al cielo. «No.»
«Però non mi hanno presa. A te sì, direi da come ti vesti.»
«Mi hanno preso.»
Il barista le poggiò il bicchiere davanti. Lo prese e lo alzò al cielo. «Alla tua, e alla carriera.»
«Alla tua.»
Bevemmo. «Senti» ripresi. «È imperdonabile che non mi ricordi di te.»
«Imperdonabile. Però… potresti provare?»
«A fare?»
«A farti perdonare.»
Era davvero carina e stavo andando forte. «Intanto ti offro il secondo giro.» Restammo a bere fino a chiusura del locale.
«Non mi accompagni a casa?» mi disse quando uscimmo dal locale. Biascicava un po’ ma non ci feci caso. Passeggiammo fino davanti a un bar. «Ti offro qualcosa anche qui, che dici?»
Annuì.
Volevo farla bere più possibile di modo che fosse troppo stordita per cambiare idea una volta arrivati al dunque. Il bar in questione era gestito da cinesi. Ordinai due bianchi.
Ci fermammo anche a un chioschetto dove prendemmo due amari. Arrivammo a casa sua e dovetti aiutarla a salire le scale. Davanti alla porta frugò per quasi dieci minuti nella borsa per trovare le chiavi. Entrammo e la baciai. Lei mi avvinghiò le braccia intorno al collo e avanzammo verso la camera da letto. Poi si staccò e mi fissò. «Io, ecco…» si piegò in avanti e vomitò sul pavimento.
«Stai male?» domandai sentendomi un coglione.
«No, ma va. Mai stata meglio.» Un secondo conato seguito da una nuova gettata. Il tutto davanti ai miei piedi.
Si chiuse in bagno e quando tornò mi disse che era meglio se andavo.
Il giorno Alioscia non si presentò in ufficio.
«Vai da solo.» Mi disse Ezio Scafia. «Avanti, fatturare!»
L’appuntamento era in una cascina sperduta nel Parco Agricolo Sud. Ci misi un’ora a trovarla. Venni accolto da una coppia di mezza età. Mi fecero sedere al tavolo e il marito tirò fuori una bottiglia di rosso. «Vuole?»
«No, grazie.» Aprii la cartellina con le polizze. «I nostri prodotti sono molto vantaggiosi. Se analizziamo la vostra situazione sono sicuro che troveremo un prodotto soddisfacente.»
Marito e moglie si lanciarono un’occhiata complice.
Notai uno strano sorrisino. Comunque andai avanti. «Potremmo combinare un pacchetto vita e infortuni.»
Altra occhiata tra i due.
Cominciavo a innervosirmi. «Poi se vi interessa una pensione integrativa.»
Risolino di lui e sguardo malizioso di lei.
«Scusate, ma… perché ridete?»
«Niente, niente.»
«No, dite.»
«Ecco» l’uomo guardò la sua compagna e poi tornò a me. «Non abbiamo bisogno di niente del genere.»
«Immagino. Ma credetemi, nella vita può succedere di tutto e l’imprevisto è dietro l’angolo.»
«Non per noi.»
«Ma come fate a esserne certi?»
«Vede» si guardarono. La moglie scosse la testa ma il marito la ignorò. «Noi abbiamo un’assicurazione più forte.»
«Le Generali? I nostri prodotti sono migliori.»
«No no.» L’uomo scoppiò a ridere. «Abbiamo un maialino magico.»
Li guardai per un istante. Dovevo fare lo psichiatra. Con questi due avrei guadagnato un sacco. «Certo. Un maialino magico.» Richiusi la cartellina e mi alzai. «Ok.»
«Non mi crede?» domandò l’uomo quasi ferito nell’orgoglio.
«Siamo seri, forza.»
«Venga.» Si alzò anche lui.
«Osvaldo, no!» intervenne la moglie.
«Che vuoi che sia» la rassicurò prima di condurmi nel retro della cascina. Nella stalla c’era solo un piccolo porcellino maculato che grufolava nella melma. «Mi sta dicendo che questo maiale ha il potere di esaudire tutti i desideri?»
«Non tutti, uno solo. Glielo confidi. Vedrà che entra domani sarà esaudito.»
Sorrisi all’uomo e gli poggiai la mano sulla spalla. «Stia bene, mi raccomando.» Poi tornai all’auto.
Mentre rientravo quella storia del maiale continuava a tormentarmi. “Che stronzata” pensavo. Ma non riuscivo a togliermela dalla testa.
Arrivato in ufficio trovai Alioscia stravaccato dietro la scrivania. «Mi hai lasciato da solo con degli psicopatici.»
«Scusa, non mi sono svegliato.» Si alzò e mi venne vicino. «Sai perché?» cominciò a pungolarmi con l’indice. «Guarda qua.» Prese il cellulare e fece scorrere, una via l’altra, delle foto di una bionda formosa. Lei sdraiata sulla pancia. Lei che tiene tra le gambe una bottiglia. Lei che si passa la lingua sui denti. «Stanotte… fuochi d’artificio.»
Non è giusto, pensai. Perché questo troglodita riesce a rimorchiare così tanto e a me niente? Rimasi di cattivo umore il resto della giornata.
Tornato a casa mi accorsi che il frigo era vuoto. Non mi erano mai piaciuti i supermercati, ma se volevo mangiare dovevo adeguarmi. Ripresi la macchina e mi diressi al megastore più vicino. Pensavo di non trovare nessuno a quell’ora ma mi sbagliavo. L’unica cosa che odiavo di più dei supermercati erano i supermercati pieni di gente.
Infilai il mio euro nel carrello e presi a vagare per le corsie. Tutto era bello in mostra e diviso per reparti. Il reparto pesce, quello della verdura. La zona carne poi era divisa in due sottosezioni; manzo e pollo. All’equina era riservano un angolo in fondo. Forse perché vendeva meno. Dopo c’erano gli alcolici e i detersivi. Attraversai corridoi colorati raccattando il cibo dagli scaffali.
Arrivai alla frutta. Banane, qualche arancia, due pere ed ero a posto. Potevo già filare a casa, fuori da quella fabbrica di consumo.
Mi misi a cercare una cassa libera. Diverse erano chiuse e davanti a quelle aperte c’era la coda. Troppa e ovunque. Mi guardai intorno e vidi una ragazza, indossava la divisa e passeggiava scazzata, lanciando qua e là occhiate di disprezzo.
«Scusa» la fermai.
A parte i capelli rossi, il resto non era granché. Aveva la bocca da rana e gli occhi a mezz’asta, da stupidina. Mi squadrò e sorrise.
«Sai mica se c’è una cassa libera?»
Continuò a sorridermi senza rispondere.
«Ho detto a te, hai sentito?»
«Sì.»
«Allora?»
Mi toccò la spalla. «Vuoi saltare la coda, eh?»
Annuii.
La sua mano, dalla spalla scese a carezzare la mia. Mi fece l’occhiolino.
La fissavo senza capire.
«Vieni.» Mi prese per mano e mi condusse. Continuavo a non capire, però la cosa si faceva eccitante.
«La gente è stupida. Si accalcano tutti negli stessi posti.» Le sue dita si intrecciarono alle mie. Mosse il braccio e mi sfregò il pacco col dorso della mano. «Ehi» disse. «Cos’abbiamo qui?» Sentì che mi si stava indurendo e rise.
Solo allora capii, ci stava. Nemmeno ci conoscevamo. Perché? Le donne resteranno un mistero incomprensibile.
Puntammo all’unica cassa libera ma come fummo davanti mi fermò. «Lasciala qui la roba. La paghi dopo.»
La guardai stranito. Tutto era davvero surreale.
«Mica te la rubano» aggiunse.
Lasciai il carrello e le andai dietro.
Il commesso seduto in fondo al nastro nero ci guardò e scosse la testa. «Guarda che ti licenziano se continui così» le disse.
Lei alzò le spalle.
Uscimmo e andammo alla mia macchina. Salimmo e misi in moto.
«Vai di là» mi indicò uno spiazzo nascosto dietro l’edificio. Ci scaricavano le merci dai camion ma in quel momento era vuoto. C’era solo un tale chinato sul muretto in fondo. Era piegato su se stesso e trafficava con le mani.
«Lui?» le chiesi.
«Si fa gli affari suoi.» Si sbottonò i pantaloni e sfilò le gambe. Poi mi piantò gli occhi addosso. «Ti muovi?»
Sapevo di non essere uno di quei tipi fighi che le ragazze si voltano per strada, quindi le feci la domanda che mi girava per la testa: «Scusa, ma… perché? Voglio dire, non ci conosciamo neanche.»
Sbuffò. «Boh. È che mi rompo i coglioni a stare lì dentro. Poi tu sei carino.»
«Bene.» Cominciai a sbottonarmi la camicia.
«Ti muovi?»
«Quasi finito.» Arrivai in fondo e slacciai la cintura. «Scusa ancora un minuto.» Presi il cellulare e le feci una foto. L’indomani avrei fatto io il figo con Alioscia.
«Oh!» mi guardò accigliata.
«Cosa?»
«Mi hai fatto una foto?»
«No.»
«Sì, invece.»
La situazione stava precipitando.
«Perché l’hai fatta?»
«Bah, così.» Alzai le spalle.
«No, spiega» tornò alla carica con voce seccata. «Cazzo mi fotografi?»
«È solo che…» Mi bloccai, non sapevo più cosa dire.
«Cos’è? Poi la fai vedere agli amici al bar? O sei uno di quei pervertiti che mette le cose su internet?»
«Eh?»
«Mi fai schifo.»
«La cancello subito.»
«Senti, guarda. Mi hai rotto il cazzo.» Afferrò i jeans e se li infilò muovendosi nervosa.
«Scusa, io…»
«No, zitto!» Portò l’indice davanti alle labbra. «Zitto» ripeté fissandomi con aria severa. «Testa di cazzo.»
Scese e sbatté la portiera. Fece tre passi poi si voltò e mi mostrò il medio. Raggiunse il tipo del muretto e si mise di fianco a lui. Cominciarono a passarsi una canna.
Rimasi a guardarli per un istante poi misi in moto e girai l’auto. Non mi erano mai piaciuti i supermercati. Rientrai ma il carrello non c’era più. Il ragazzo dietro la cassa vuota era ancora lì invece. Mi guardò e sorrise malizioso.
«Dov’è la mia roba?»
«L’hanno rimessa negli scaffali.»
«Ma non avevo finito.»
«Almeno la patata l’hai presa?»
Lo lasciai a sghignazzare e girai l’angolo del reparto. I corridoi erano ancora più popolati. Gente che si accalcava davanti ai banchi. Gente che non riusciva a passare. Gente dappertutto.
Meglio lasciar perdere. Me ne tornai alla macchina. Mangiai un Kebab e mi recai all’Hobs per bere. Ero deluso e arrabbiato. Dopo la prima birra mi tornò in mente la storia del maiale. Alla terza ero abbastanza brillo e decisi di tentare, cos’avevo da perdere? Presi l’auto e raggiunsi la cascina. Saranno state le dieci di sera e tutte le luci erano spente. Andai nella stalla dietro. Il porcellino era lì. Alzò i suoi occhietti acquosi su di me e grugnì.
«Allora, brutto porco. Se è vero quello che dicono, esaudiscimi» cominciai titubante. La testa mi girava un po’. «Voglio una… sì! Voglio una figa, tutta per me. Una bella figona, hai capito. Voglio la figa, la figa! La figa!» Solo quando vidi una luce che si accendeva mi accorsi che stavo urlando. Sgattaiolai verso l’auto e tornai a casa.
La notte feci diversi incubi. Sognavo d’essere rinchiuso nella stalla e che l’aria veniva mancare, così morivo soffocato.
Mi svegliai il giorno dopo intontito, come se m’avessero fatto un’anestesia totale. Misi i piedi fuori dal letto e meccanicamente andai in bagno. Alzai la tavoletta ma sentii un rivolo caldo scorrere nell’interno coscia. Quando abbassai lo sguardo non trovai niente. Il mio coso non c’era più. «Cazzo!» Toccai sotto e sentii due labbra. Ci passai le dita e venni scosso da un brivido. «Non è possibile.» Presi lo specchio e mi misi sul letto gambe all’aria. «No, no! Non era questo che volevo.» La sveglia intanto segnava le nove e mezza. Saltai in piedi, mi vestii e corsi fuori. Avevo già perso il cazzo, non volevo perdere anche il lavoro.
Ezio Scafia mi aspettava furibondo. «Allora, signorino» cominciò. «In tre settimane nemmeno una polizza.»
Un ragazzotto ci passò di fianco e lasciò la porta del bagno aperta. Come sentii il rubinetto scorrere provai il bisogno impellente di pisciare. Strinsi le gambe cercando di concentrarmi sulla faccia di Scafia.
«Non amiamo chi perde il tempo, qui.»
Lo stimolo era sempre più forte.
«Nemmeno i tuoi parenti hai assicurato.»
«Scusi un minuto.» Mi fiondai in bagno e mi sedetti sulla tazza. Era la prima volta che pisciavo da seduto. Finito presi la carta igienica e pulii strofinando. Il prurito mi assalì. Restai con uno strano pizzicore per il resto della mattinata. Passai la pausa pranzo in farmacia.
«Non avrebbe qualcosa per prurito e irritazione?» sussurrai.
«Irritazione dove?»
«Ehm» tossicchiai. «Vaginale» provai a mimare con le labbra.
«Eh?»
«Vaginale» bisbigliai.
«Vaginale? Ah. Ma si tratta di secchezza vaginale, candida o una semplice irritazione?»
Quelli in coda dietro mi guardarono.
«È per mia moglie.»
«Dica a sua moglie di venire direttamente, allora» replicò la farmacista. «Tra donne ci capiamo meglio.»
Tornando in ufficio cominciai a sentire delle fitte al basso ventre e un lieve mal di testa. «Cristo, le mestruazioni no.»
Scesi di corsa, presi l’auto e sgommai diretto al Parco Sud. Nel viaggio mi sentivo bagnato da gocce incontrollate. Mi stavo inzuppando le mutande.
Raggiunsi la cascina, abbandonai l’auto ancora accesa e corsi verso il maialino. Mentre attraversavo la corte vidi il proprietario che mi fissava dalla finestra e rideva di gusto.
«Vaffanculo» urlai.
Il porcellino era lì. Entrai nel suo recinto e lo carezzai sulla testa. «Ascolta, amico. Devi rimettere tutto a posto. Io sono un uomo. Rivoglio il mio pene.»
Mi guardava smarrito muovendo il naso.
«Ti porterò un sacco di mangime ogni settimana, promesso. Avanti, ti prego.» Lo abbracciai. «Ascoltami, ti supplico.» Sedetti a gambe incrociate nella melma tenendogli il muso. «Rivoglio il pene. Rivoglio il pene. Rivoglio il pene.»
Mi morse la mano.
Mi rialzai e lo presi a calci, poi sentii un mancamento e tutto si offuscò.
Quando mi ripresi ero sul sedile posteriore della mia macchina. Alla guida il vecchio contadino.
«Mi ha fatto prendere un bello spavento» disse.
«Cos’è successo?»
«È svenuto nella mia stalla.»
Mi alzai. «Accosti.»
«Tra poco saremo all’ospedale.»
«Accosti!»
L’uomo obbedì. Scesi e mi misi sul ciglio dando la schiena all’auto. Tirai giù la cerniera e lo toccai. C’era ma minuscolo. Anche i peli pubici erano spariti. Lo mossi un po’. Il cazzo mi era stato restituito ma ricominciava da capo.
Ci vollero tredici anni prima che raggiungesse la sua pubertà. Io intanto invecchiavo. A quei tempi avevo venticinque anni e pensavo che la mia vita sarebbe stata un disastro. Ora ne ho cinquantuno e il pisello di un ventiseienne. Non posso proprio lamentarmi e la cosa credo migliorerà. Penso spesso a quando ne avrò settanta. Lui ne avrà quarantacinque e allora ci sarà da ridere, forse.
Con le assicurazioni invece decisi di smettere. Quel lavoro non faceva proprio per me.
Settembre 2023