Odette Antico

Gli occhi di chi ha perso tutto

ANNO 01 | NUMERO 12 | OTT 2023

Non ho mai conosciuto buio più profondo di quello che ho vissuto.

Era il 1919 e mi trovavo a casa sul mio comodo divano davanti al camino mentre leggevo il quotidiano, quando una goccia cadde dai miei occhi e bagnò il foglio sulla pagina col titolo: La guerra è finalmente finita.

Mi chiamo Matteo Bernardi e ho servito nell’esercito come soldato in seconda linea. Ora all’età di 24 anni sono qui che piango sopra la pagina di un giornale.

Guardai per terra dove c’era un poggia piedi scucito di lino poi guardai le mie gambe, la mia gamba.

Afferrai le stampelle e mi alzai, avevo bisogno di un po’ d’aria.

La mia pancia prendeva a pugni la parete dello stomaco mentre rileggevo ripetutamente la frase “La guerra è finalmente finita”.

Ero stremato, decisi di andare sul balcone e lì presi un accendino e aprii un pacchetto di sigarette, lo fissai, fumare era una brutta abitudine che avevo preso durante la guerra. 

Continuai a guardarle ma dopo pochi secondi sentii una fitta al cuore, quelle sigarette erano le stesse che fumavo in Trincea nei momenti in cui potevamo, con il mio compagno e migliore amico: Elia Parkey. Non volevo pensare a Elia. Lui non c’era più e con lui se ne erano andate tutte le mie speranze e tutti i miei motivi per essere felice. Buttai a terra le sigarette con rabbia, ne osservai una uscire dal pacchetto e rotolare, rotolare fino a raggiungere la fessura del balcone. Ma non cadde, rimase lì, a pochi millimetri dalla fine dello spiazzo. La fissai e scoppiai in un pianto di dolore.

Spostai il mio sguardo al cielo e mentre lo guardavo pensavo, pensavo senza sapere a cosa pensare.

Non ci vedevo nulla in quel cielo, nemmeno il sole che era appena sorto era capace di illuminarmi, io ero spento.

Mi girai con lo sguardo sul pacchetto di sigarette. Affianco ad esse c’era una sedia a dondolo, mi sedetti, guardai avanti a me e lo vidi. Vidi! Vidi qualcosa, anzi qualcuno che quel giorno mi cambiò la vita, lo guardai negli occhi e vidi la stessa luce di sempre che mi aveva sostenuto da quando si era accesa.

“Elia?” Dissi con voce spezzata. La mia bocca era asciutta e le mie mani tremavano.

“Matteo” Disse lui.

Pensai di star impazzendo, lo reputavo più che possibile, eppure lui era lì che mi guardava con gli stessi occhi con cui mi guardava 10 anni fa, con lo stesso sguardo, con lo stesso viso.

“Elia cosa ci fai qui? Sono pazzo per caso? Sto sognando? Sono morto?”.

“No Matteo, sono qui per parlarti”.

Sgranai gli occhi. “Parlarmi?”. Certo, avevamo tante cose da dirci ma non pensavo che un morto potesse uscire dalla sua tomba per “parlare”.

“Dunque Elia, amico mio, cosa devi dirmi?”.

Guardò me, poi la mia gamba.

“Matteo, sei morto dentro e io lo so perché ti conosco meglio di quanto tu conosca te stesso. Hai paura, sei vuoto e io sono preoccupato per te. Matteo tu non vuoi ammettere la tua esistenza. Dobbiamo parlare di quel giorno Matteo, se continuerai a rinnegarlo morirai ogni giorno, sempre di più.

“Quel giorno”. Mi girava la testa, mi sudavano le mani, sapevo di cosa stesse parlando Elia.

“Era il febbraio 1917” Iniziò lui.

Io impallidii, aveva deciso di palare.

“Gli austriaci ci stavano attaccando e noi avevamo il compito di sorvegliare le loro mosse. Ci nascondemmo così bene che credevamo che nessuno ci avrebbe trovato, nemmeno se ci avessero cercato. Da lì potevamo sorvegliare ogni loro mossa. Vedevamo il caporale che parlava con i soldati e dava loro ordini. Restammo lì per mezz’ora quando ad un tratto io ti chiesi… “Si interruppe e mi guardò.

“Vuoi continuare tu?” Mi chiese.

Annuii e deglutii la saliva, ma avevo un groppo alla gola che mi limitava il respiro.

“Si, beh, ecco…mi ricordo cosa mi chiedesti:” Vuoi una sigaretta?” Io accettai e fumammo la nostra sigaretta, ecco”.

“E poi?” Disse lui.

“E poi…beh, e poi…”

Non riuscivo a parlare, c’era qualcosa che mi bloccava.

“Al diavolo la coscienza Matteo! Parla!” Gridò lui.

Con grande lentezza e fatica ricominciai a parlare spiccicando una parola ogni cinque secondi.

“Il caporale austriaco ci ha visto, ecco.”

“Almeno ha visto il fumo, e ha deciso di avvicinarsi”.

“E ci ha trovato, Matteo?” Chiese lui in tono secco.

“Si, ci ha trovato, e ti ha preso Elia, ti ha preso e io sono scappato, mi ha sparato alla gamba, ma sono riuscito a tornare dagli altri”.

Avevo gli occhi lucidi e la testa mi girava, vedevo tutto nero ma una voce mi fece una domanda che mi spezzò il cuore in mille pezzi.

Sentendo la domanda mi pietrificai. Il dolore mi si sparse su tutto il corpo. Il sangue si gelò. Non vedevo più nulla.

“E senti un po’ Matteo, hai sentito qualcosa mentre scappavi?”

Non aprii la bocca, rimasi solo lì a fissarlo. Ma lui gridò di nuovo la domanda.

Con gli occhi pieni di lacrime e la voce tremante iniziai a parlare.

“Ho sentito un altro sparo, non era diretto a me però, era diretto a te.

“E ti sei girato?” Mi chiese.

“No” Risposi. Vuoto, buio totale.

Elia mi fissava ed era come se fosse indifferente al mio dolore, non lo avevo mai visto così. Non li leggevo più i suoi occhi. In lui vedevo solo il riflesso di me stesso, il riflesso di qualcuno che soffre.

Trovai il coraggio di dire un’ultima frase, non so se fosse la frase giusta, non so se sarebbe cambiato qualcosa, se avessi detto qualcosa di diverso, non importa.

“Non mi merito di volerti bene”.

Chiusi gli occhi, li riaprii e la figura di Elia che fino a pochi secondi fa mi guardava con occhi indecifrabili era sparita.

Le mie guance erano bagnate da lacrime salate. Mi convinsi che era stato tutto un orrendo sogno, che non era successo nulla, mi obbligai a dimenticare.

Una cosa però, una piccola cosa, mi impedì di dimenticare. Guardai in terra, la sigaretta era di nuovo nel pacchetto, messa in modo ordinato con le altre.

Non posso descrivere cosa stessi provando in quel momento, un misto tra paura, rimorso e odio.

Sapevo cosa volesse Elia da me, lo avevo capito e finalmente avevo capito cosa volevo da me stesso.

Mi alzai dalla sedia a dondolo, presi le stampelle, misi dei pantaloni di velluto beige che non usavo da prima che mi arruolassi. Indossai la mia maglietta preferita, era verde, il colore che mi ricordava Elia.

La mia casa era a fianco della stazione, vedevo le facce delle persone in quel grigio pomeriggio di ottobre che bisbigliavano non appena gli passavo accanto.

Comprai un biglietto e salii sul treno.

Finalmente arrivai lì, nel nostro posto preferito dove io e Elia andavamo sempre.

Era un prato enorme, in primavera era pieno di papaveri e lì stavamo per ore sdraiati su quella distesa, a parlare anche delle cose più effimere.

Con le stampelle mi diressi dentro l’alta erba, mi distesi e guardai il cielo, non era più spento, “mi illumino d’immenso”. 

Ottobre 2023

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