Laura Colantonio
Trenta minuti alle cinque
ANNO 01 | NUMERO 12 | OTT 2023
Sul tavolo dell’ingresso trovo dei foglietti gialli con gli appunti sparsi a puzzle. Era quella la lista dei doveri? Solo tu scambieresti bacchette dello Shangai con parole, ma le ho capite.
Ora che papà è uscito faccio della carta una pallina e miro al cestino, dritto davanti a me.
La tua voce è ancora tonica, la sento arrivare dal salotto, erano mesi che non ci mettevo piede, è ancora la stanza di una volta, tiepida d’inverno e climatizzata d’estate. Le piante che la abitano sono creature fortunate dell’Eden, a loro parli con rispetto, sarà per questo che ti ascoltano. La luce che filtra dalle tapparelle le nutre, anche se ti ostini a rimanere in penombra. Il marmo a pavimento ti fa lacrimare gli occhi. Avevo detto di tenere i tappeti, i raggi che si riflettono sono lame per le retine, ma guidano i tuoi passi, oggi più incerti se spostarsi dalla porta al corridoio.
“Stai dritta!” Mi tocca pure urlarti contro mentre barcolli verso la poltrona.
Raccolgo il giornale da terra, non riesci a tenerlo tra le mani, perché papà si ostina a comprarlo?
“Non l’ho ancora letto.” Protesti incrociando le gambe.
Afferro i tuoi polpacci che stringi a ics, hai la pelle morbida, è fresca.
“Se punti i piedi, mamma, non stai mica in equilibrio”.
Mi hanno detto e ti ripeto:
“Devi rilassare le ginocchia, non tenerle incollate l’una all’altra.” Senza sorridere giri gli occhi, gli unici che ancora rispondono ai tuoi comandi. Il resto della mente si è ribellato al protocollo, e da anni il corpo, arreso, obbedisce solo alle medicine per i tremori.
“Hai fame? Sbuccio metà mela prima di andare via.” Dico entrando in cucina. Ferma a fissarti mentre ti ripieghi su te stessa non ci so stare.
Che non avessi voglia di venire me lo hai letto in faccia. E per farmelo notare mi hai rimproverata di non rispondere al telefono quando hai bisogno. Ma non è un segreto: non sei più tu il primo dei miei pensieri.
“Passo per un saluto”, è la sola cosa che ti ha letto papà del mio ultimo messaggio. Scommetto che ha omesso il resto, si ostina a tenere in pace la famiglia, viene prima di tutto.
“Mangiala tu la mela. La frutta rattrista, non sono mica malata. Perché non venite a pranzo con i bambini? Martedì c’è la signora Gina che ci aiuta.” Non lo ricordi, ma è da due mesi che ti parlo del nostro trasferimento.
Mentre arrivo con il piatto, dalle gambe scivolano gli occhiali. Mi chino ai tuoi piedi dove una pila di riviste e quotidiani fa da tavolino, e continuo: “Partiamo domenica.” E quella espressione sembra dire: “Ti abbandono.”
Torno a sedere, davanti a te, senza appoggiare la schiena, non riesco a rilassarmi tra queste mura.
“Ho lasciato il segno su una pagina, ti va di leggerla a voce alta?” Afferro la rivista che indichi e comincio dal segno che hai fatto a penna. Due settimane fa riuscivi ancora ancora a scrivere. Ora, invece, dalla cucina sono spariti pure i bicchieri, i pochi del servizio che non ci hai tirato dietro quando perdevi la pazienza.
Mentre leggo mi sudano i palmi, e gioco con gli anelli che sfilo e rinfilo. Un tic che ho da trent’anni. Se rimanessi senza di loro, l’ansia manderebbe ai pazzi le mie dita. Tutta colpa di questo salotto, è lui che mi strozza.
L’orologio del nonno, incastrato sulla mensola della libreria, tra volumi che non avete mai letto, segna le quattro e mezza. Ancora trenta minuti e suonerà il citofono.
Dal pizzo della poltrona mi alzo e inspiro quanto basta per dire senza pause: “Torneremo a Natale.”
Rimango in piedi, pronta a offrire il petto come bersaglio, aspetto un colpo, dritto alle costole.
A far vibrare il silenzio sono le tue calze, mi si arricciano i peli quando strusciano sulla pelle della poltrona, peggio di un’unghia che gratta la pietra.
Sei pallida. Prego che non accada nulla, non adesso. Ti afferro il polso.
“Vai già via?” Mi chiedi col mento alzato fin dove riesci a tendere il collo.
“Controllo i battiti, papà mi ha detto di farlo ogni ora.” È una bugia. La tua mano scotta e perdo il conto. Allento la presa, il calore che sprigiona m’impressiona. È lo stesso delle carezze di una volta, sollievo di nottate insonni dal mal d’orecchio.
Alla finestra c’è il sole, bussa, cerca te, gli piace quando sorridi e strizzi gli occhi per non farti abbagliare. Quando per compiacerlo gli dici che ti fa stare bene, e lui, vanitoso, ti fa apparire questa stanza come fosse il paradiso. Ma vuoi lo stesso che tiri la tenda. Rimango di spalle e riprendo il discorso. È per questo che sono qui:“Saremo di ritorno prima che papà prepari il presepe. Non voglio far perdere giorni di scuola ai bambini.”
Alzo gli occhi al cielo e poi li chiudo. Prima che mi scoppi in faccia la tua risposta aggiungo: “Ho avvisato i miei fratelli, e pure gli zii, faremo Natale qui.” Ma non riesco a voltarmi per vedere come vorresti rispondere.
Della seconda finestra apro un po’ meno la tenda e per metà alzo la tapparella.
“Roma non si smentisce mai.” Mi dici cambiando voce. Trema.
“È l’unica col cielo dal colore di zucchero.” E punti le pupille oltre i vetri mentre sollevi a fatica un palmo per deviare la luce. Annuisco e sorrido, i tuoi commenti sul cielo mi rassicurano: hai ancora voglia di vivere.
A me, invece, il pensiero di lasciare Roma fa morire. Lo ammetto, mi dico col mento al petto, mi mancherà. E farà male non meno del bisogno di lasciarti.
Mi volto e ti trovo seduta, a modo tuo sei al sicuro.
“Mi lasci sola con tuo padre a scegliere i regali?”
Ho parlato troppo presto, prima che riesca ad afferrarti, sei già a terra.
Con le braccia sotto le spalle provo a riportarti seduta. Non pensavo fossi così pesante. Stando di fronte mi arriva una fitta alla schiena, allora cambio presa. Piego le ginocchia e accosto le mie alle tue. Il braccio che sollevi penzoloni lo appoggio sulle mie spalle, hai lo stesso odore che aveva la nonna, è quel tonico alle rose. Lo uso anche io, ogni sera, concilia il sonno.
Lentamente ti riporto in piedi facendo leva col mio peso.
“Vi ho sempre detto che le poltrone di pelle non sono adatte a due persone anziane.”
Sbuffi, ti lasci sedere e sospiri. È il segnale, me ne devo andare.
“Che nonna sarò senza nipoti intorno?”
Era questo che cercavi scritto in cielo? Non t’importa di che colore sia, se puoi sbattere qualcuno all’angolo con al collo il senso di colpa.
“Mi avevi promesso che mi avresti portata a Villa Pamphili per festeggiare il compleanno.” Ecco l’affondo. Solo tu riesci a ricordare quello che fa più male al cuore. La mia memoria, invece, si sforza da anni di mettere insieme le gioie, appunti rimasti in fondo a una lista.
Mi guardo intorno e cerco aiuto, come se ce ne fosse dietro le pareti. Mentre sotto la calce sono rimaste le imprecazioni, le tue proferite nelle riunioni plenarie, senza papà. E dalle mura risuona l’eco della tua voce, sovrana nella tua ‘democrazia’.
Sospiriamo insieme, e mi chiedi scusa.
“Per cosa?” Rilassati, molla il controllo. Non sei la sola a sentirsi in trappola.
“Chiamo papà.”
Suona il citofono. Ma non muovo un passo, ora è a me che tremano le gambe.
“Torni presto?”
“Tornerò.”
Tornerò finché non avrò il coraggio di dirti che ti voglio bene.
Ottobre 2023