Apolae
Gas
ANNO 01 | NUMERO 12 | OTT 2023
Parcheggiai lungo via del Vescovado, in divieto di sosta, sotto le guglie severe della cattedrale. Troppo tardi per fare un altro giro, a metà pomeriggio poi manco morta, col pavé gremito di auto e gente a zonzo per il centro, scherziamo, mettersi a correre sulle Gucci nuove. Chiusi la portiera con tre bip gialli e percorsi il marciapiede. I negozi non li guardavo neanche, tanto c’erano i saldi e la roba in vetrina sarebbe stata scadente. La dieta mi proibiva bar e pasticcerie. Ci misi giusto un paio di minuti ad arrivare allo studio. Le volute liberty del palazzo sbucarono dietro l’angolo, al solito fastidiose perché il loro stile cozzava con l’edificio moderno, restaurato con fretta e cattivo gusto in una chimera di calcestruzzo, che mezzo immobile era sfitto e l’altra metà non avrebbe protestato, figuriamoci, tra ereditiere murate in casa e uffici insensibili all’argomento. Spinsi il portone e mi avvolse una zaffata penetrante, forse cibo andato a male. Zolfo. Gas. Odiavo l’ascensore condominiale, brutto e stretto come una gabbia per uccelli, così scelsi le scale. Ne avrei approfittato per i polpacci. Vedevo le belle scarpe e il dorso sottile orlato della tomaia, lo smalto rosa nella punta aperta e le caviglie modellate dalla danza, ma che puzza fetente via via salendo, una roba indegna, da svenire, si ficcava nel naso fino al cervello. Guadagnato il terzo piano, entrai in ufficio.
Preparavo una tisana drenante con gli spaghetti intrecciati nello stomaco, troppo sugo e olio, porzione da camionisti, dovevo cambiarlo quel bistrò altrimenti che senso aveva la palestra. Un’occhiata alle gioie del mio magnifico tennis, sciogliendo il miele col cucchiaino. Per fortuna il cattivo odore era scomparso, restavano il garbo della betulla e il tintinnio degli orecchini di Giada, preludio ai tediosi convenevoli postprandali. Mise l’acqua a bollire e imbastì il suo tè verde, tegamino e bustina pronti, mentre mi raccontava di sua madre col Parkinson, dei figli incontentabili, del buon periodo di prova in palestra, della nuova crema Sephora, degli appunti su un caso importante che stava seguendo, di un collega bastardo, dello spettacolo di sabato al Comunale, dei parcheggi sempre più introvabili, dell’amante indeciso, di ameni luoghi in cui voleva scappare, del marito insignificante, della laurea sbagliata, senza tralasciare la sospetta fuga di gas nel nostro palazzo. Sorseggiando e spettegolando, si fermò con la tazza a mezz’aria, Oh Miche’ non è che saltiamo in aria, zittita dalla voce di Egidio, socio anziano, Ve l’ho detto, mo basta, non c’è nessun gas, al computer col trench ancora addosso, nemmeno fosse l’agente Mulder in X-Files, tic-tic-tic lo sentivamo che batteva nervoso sulla tastiera, il papavero, perché quel pomeriggio aveva in agenda un incontro col Presidente della F.I.C.A. e non vi avrebbe rinunciato in qualsiasi evenienza, incendi e terremoti compresi. Scaldai la gola con gli ultimi sorsi.
Stavo ordinando i documenti della pratica Rossi-Ferretti per cercare delle informazioni che sarebbero potute tornarmi utili. Tiravo fuori i faldoni, ce n’erano diversi, alcuni ammaccati. La memoria scivolò al giorno dell’udienza, o magari la mia non era davvero memoria, anzi la presunzione di un falso ricordo, collage contraffatto di frammenti riadattati. Il film nella mia testa cominciava a girare e gli ex-coniugi alla sbarra esponevano la propria versione, combattiva lei indolente lui, di fronte al mento sudato del giudice, che faceva un caldo allucinante, tutti a maniche corte e i più cafoni in canotta. L’ex-moglie agitava ostentata la ruche delle maniche, Vostro onore mio figlio è la mia vita la prego richiedo l’affido esclusivo. L’ex-marito taceva e fissava le lancette, il legale imbarazzato svitava e avvitava la penna, il giudice sventolava la noia con una fotocopia, Dunque lei è d’accordo, e silenzio dell’uomo, che del figlio non voleva saperne, che non aveva la testa né il tempo, che lasciava sprezzante il suo passato alla donna che amò prima di radersi la barba una sera allo specchio. Fece spallucce al giudice, il signor Rossi, se ne sbatte il cazzo e venne congedato dall’aula insieme alla Ferretti. Il funzionario avrebbe infine rimesso la decisione al collegio, guardando me e l’altro avvocato come se il suo unico pensiero fosse il fresco getto di una doccia sulla schiena appiccicata.
Squillò il campanello dello studio. Era la contessina De Iuliis, proprietaria dell’attico e memoria storica del palazzo, che sorrise a tutta dentiera allo schiudersi dell’uscio, Boggiorno signurì, con una cofana di capelli grigi in testa e un visone indossato su una tutina. Ai piedi, un inspiegabile paio di babbucce. Chiese venia un po’ in dialetto un po’ in italiano, dacché era scesa in fretta e furia dal quinto livello, scampanellando in tutti gli appartamenti puntualmente disabitati, a parte i Ricci, due che non c’erano mai. Sembrava preoccupata per il tanfo sulla rampa di scale, poverella. E pareva anche piuttosto gasata. Vivere sola in un loft certo non le offriva molte chance per spezzare la routine, una scusa per uscire, dei pensieri nuovi di cui occuparsi. Diceva di voler chiamare i pompieri, poteva essere una fuga di gas quella, ma non si sarebbe azzardata a telefonare da sola. Temeva le domande che le avrebbero posto. Egidio si presentò nel tentativo di sbarazzarsene con ruvida cortesia (a momenti arrivava il Presidente della F.I.C.A.), quasi le aveva richiuso il portone sulle pantofole, assicurando che tutto era ok Stia serena signora buona serata, quando decisi di darle ascolto. Anch’io ero scettica sulla storia del gas e non sapevo se il mio fosse gesto di pietà o sesto senso. Fatto sta che in pochi minuti mi ritrovai la sua cornetta d’avorio tra le mani, perché mi pregava di chiamare, io, che ero giovane e parlavo meglio e i pompieri avevano più piacere a salvare una bella giovinetta che una mummia come lei. Mi convinse per sfinimento, sprofondate nel suo chesterfield smisurato, davanti a due fette di Parrozzo e una goccia di Genziana. Il corno di un grammofono effondeva Tu che m’hai preso il cuor sugli stanchi lampadari in cristallo, sui distratti mobili d’antiquariato, sui muti busti di gusto classico. Composi allora il 115 sul disco del telefono, ruotandolo tre volte, incredula visto che non vedevo un apparecchio del genere da quando ero bambina, N’altro pochetto di Parrozzo, chiese amabile la De Iuliis quando riagganciai. Una squadra di vigili del fuoco sarebbe arrivata prima possibile da via Diaz.
Incontrammo al pianterreno i sette pompieri appena schizzati fuori dal camion, che di traverso aveva tappato la strada, Aprite tutto Cristo c’è una perdita. Spalancarono il portone a bestemmie, lo tennero fermo col vaso di ficus all’ingresso, quindi due di loro cercarono i contatori in cantina e gli altri sciamarono per le scale, chi ad aprire le finestre disponibili, chi a bloccare l’ascensore e chi a bussare ai vari appartamenti per far evacuare lo stabile. Fecero uscire me e la signora De Iuliis ancora in ciabatte, di certo le notai solo io, laddove per strada si formava il capannello dei curiosi, Che succede? Eh, che succede? I primi giornalisti arrivavano fiutando la notizia, Voi chi siete? Ci sono già vittime? Qualcosa da dichiarare? Qualcuno persino inveiva con l’autista dell’autoscala per aver paralizzato la via, Ngul à mammete devo passare. Nel frattempo i pompieri avevano ispezionato le cantine e i primi tre piani. Nessuna fuga. I pochi condomini e professionisti trovati nel fabbricato scendevano alla spicciolata, compresi Giada sconvolta ed Egidio indemoniato, già su WhatsApp col Presidente della F.I.C.A. per rischedulare l’incontro al Caffè Poeti. Con loro anche un altro collega, frastornato, che era chiuso in call dalla mattina e non s’era accorto di nulla.
I vigili del fuoco rilevarono la saturazione di fronte alla porta dell’interno 15, al quarto piano, inferiore alla dimora De Iuliis. Il capo-squadra aveva bussato vigorosamente al portone più volte, non poteva suonare per evitare scintille dal campanello, bussò gridando con la bocca attaccata alla serratura, aspettando il massimo consentito, dopodiché si decise a far calare due uomini sul balcone tramite l’autoscala. L’interno dell’appartamento era parzialmente ammobiliato, eppure deserto dietro ai tendaggi, perciò gli operatori sfondarono il vetro e perlustrarono la casa col rilevatore acceso. Fu facile per loro scovare la perdita inginocchiati in cucina, nei pressi dei fornelli, non sopra ai fuochi polverosi bensì sul fondo del piano di cottura incrostato, dove un tubetto giallo si snodava flessibile dagli ugelli fino all’attacco nel muro, apparentemente integro sebbene sporco. Ispezionandolo con attenzione, osservarono che lungo un tratto presentava piccoli segni biancastri. Marchi triangolari, forse impronte, che conducevano a un forellino minuscolo. Un puntino nero appena percettibile sulla superficie bucata. Fu quella, conclusero nel verbale, la causa della perdita.
Quello che i pompieri ignoravano, semmai, lo venni a sapere a distanza di mesi, quando la pratica era chiusa e nessuno ne parlava già più. Mi trovavo in visita dall’amministratore del condominio, per fargli firmare un incartamento che serviva al nostro studio. Era lì seduto sotto la lampada a siglare ciascun foglio del plico, io davanti a lui con la Prada sulle gambe. Ripensai alla storia del gas e mi venne di getto, glielo chiesi tra il lusco e il brusco, Ma che era successo all’interno 15. Lui mi porse il fascicolo firmato e spostò indietro la poltroncina, uscendo dal cono di luce, Guarda non chiederlo a me era sfitto da due anni.
Ottobre 2023