ROBERTA MEI

La nostalgia del sale

ANNO 02 | NUMERO 13 | NOV 2023

La forchetta si fa strada tra i pezzi di lattuga. Esito.
Ne infilzo uno, lo porto alle labbra e mi
sforzo di dischiuderle.  È dentro.
Lo sento scrocchiare e mischiarsi alla saliva. Mando giù. 

 Una foglia di lattuga. 

   Alzo lo sguardo. 

   O erano due? 

   Stanno ridendo. Non mi ero accorto che il vociare di Bea copre quello della tv. Lo zelo con cui ci informa delle mattinate scolastiche è pari alla determinazione di Sara nel tenerci all’oscuro delle sue. 

   Guardo la mia primogenita. 

   – Com’è andata la verifica? 

   – Bene.

   Me lo faccio bastare. È troppo impegnata con la sua fetta di pizza per elaborare oltre. Temporeggio con la mia foglia di lattuga – o forse due

   – Non ci metti il sale? – chiede Emma.

   – Mi piace così.

   – Allora è una non-salata! – esclama Bea.

   Emma ride. 

   Mia figlia agita in aria la forchetta e strappa un sorriso pure a me.

   – Bea, metti giù quella posata. 

   – A me piace tenerla in alto, come uno scettro. 

   – Infatti, mangiare è un superpotere – interviene mia moglie, – ma solo se lo scettro passa dal piatto. 

   Due foglie di lattuga. 

   – Papà, perché tu non mangi la pizza?

   – Ho mal di pancia, stellina. 

   Le accarezzo i capelli. Bea torna a dedicarsi alla sua margherita ridotta. Svuota il piatto durante un raro momento in cui non può monopolizzare la conversazione: Sara ha ritrovato la parola. Domani vorrebbe dormire da Erika.

   Una lattuga di fo – una foglia di lattuga. O due?

   – Lore? 

   Emma mi guarda come se aspettasse qualcosa.

   – Tu che dici? 

   Le osservo. Tre generazioni che pendono dalle mie labbra, senza sospettare quanto queste siano insipide. Cosa può uscire da labbra senza sale? 

   Scambiano il mio inebetimento per una suspense creata ad arte.

   – Dai, papà, domani è sabato – supplica Sara.

   – Sì, papà, domani è sabato – ribadisce Bea, consapevole che le battaglie vinte dalla sorella faciliteranno il suo futuro di adolescente. 

   – Va bene – sentenzio alla fine. 

   L’esplosione di gioia delle mie figlie è l’abbraccio di cui avevo bisogno. 

   Quando vanno a letto, raccolgo i piatti e li porto nel lavello. Invidio la ceramica: per ripulirsi dal cibo, le bastano acqua e detersivo. 

   Sento Emma avvicinarsi.

   – Mi dai un po’ di mare? 

   Il nostro rituale scemo. A ogni coppia ne serve uno. 

   Quando aveva deciso di trasferirsi, Emma lo sapeva: ciò che più le sarebbe mancato non era la famiglia d’origine, né le strade della sua città, bensì il mare. “Se non avessi questi occhi, col cavolo che ti avrei sposato!”, scherza sempre. I primi tempi me lo diceva quando le prendeva quella che chiamava la nostalgia del sale: “Vorrei vedere le onde, ogni tanto”.

   Spalancavo gli occhi e la fissavo. 

   – È lo stesso colore, no? 

   – Più o meno.

   Finivamo per ridere o baciarci, ma potevamo trascorrere minuti in contemplazione. Sapevo che a confortarla non era il colore dei miei occhi, ovviamente, ma ciò che ci trovava dentro: la conferma del perché avesse rinunciato al mare per camminare insieme sulla terraferma. 

   Col tempo, la nostalgia del sale si era fatta sempre più rara. Stavamo bene – stiamo bene. Sono arrivate le bambine. Il rituale, però, è rimasto: è il lucchetto che sigilla la nostra coppia, una tenerezza. 

   Fino a quando non è giunta lei. 

   La terza incomoda. 

   La nostalgia del sale, adesso, ce l’ho io. 

   – Ehi – Emma mi abbraccia da dietro. 

   Rimango di spalle e continuo a lavare i piatti. Non voglio che veda il maremoto in corso. 

   – Tutto bene? – sussurra.

   Annuisco, lo sguardo basso.

   La scambia per freddezza. Va in camera. 

   Le onde si agitano dentro di me. Lotto affinché implodano negli occhi, ma le sento infrangersi sulle guance. È un orario in cui posso permettermi di naufragare, quello in cui tutto sprofonda: le bambine nel sonno, la casa nel silenzio, io nei miei demoni. Mi stanno sulla spalla fin dal risveglio, ma quando resto solo, possiamo finalmente concederci un tête-à-tête. 

   Eccola. 

   La sento che si avvinghia. Il suo abbraccio mi contrae lo stomaco. Non si preoccupa di bussare, tanto sa che non posso lasciarla fuori. Sussurra amorevole, ma sento che oggi finirà per colpevolizzarmi: un classico delle relazioni tossiche.

   – Che fai, Lore? 

   – Che faccio? Penso. 

   – A me?

   – A che altro?

   – Tutto il giorno?

   – Senza sosta.

   – Hai contato? 

   – Certo.

   – Anche la lattuga? 

   – Erano due foglie. Anzi, una.

   – Cazzo c’entra? Potrebbero essere 30 calorie in più. 

   Da suadente, la sua voce è diventata aspra. Imperiosa. Veritiera. Perché ha ragione: dentro di me ci sono 30 calorie di troppo, che devo espellere. Il macigno sullo stomaco è insostenibile.  

   – Vuoi che me ne liberi?

   – Sulle scale. 

   – Ora?

   – Non farti sentire da Emma.

   Ripongo gli ultimi piatti e spengo la luce della cucina. Raggiungo le scale, salgo una rampa, scendo. E di nuovo. Salgo, scendo. Scendo, salgo. Le sue parole mi rimbombano nel cervello. 

   – Hai sentito Sergio, stamattina?

   L’ho incrociato tra gli scaffali mentre sistemavo la merce. Sei dimagrito, ha detto. Bravo, ha aggiunto. Si è congratulato per il mio male. 

   Se solo sapesse, Sergio. 

   Quando lei sembra soddisfatta, vado in camera. Emma, la partner ufficiale, mi aspetta in reggiseno. Si è messa quello rosso fuoco che mi piaceva tanto. Piaceva? Piace, credo. Si avvicina per baciarmi. Prima delicatamente, poi iniziamo a darci dentro con la lingua. L’assaporo come un dessert di cui non ingerirò le calorie. Mi tocca, ma non la sento. Vorrei scopare solo per smaltire l’insalata. 

   Come faccio a dire a mia moglie che l’unica cosa che mi eccita è la fantasia di mangiare cioccolato senza che questo m’intacchi? Immagino colate di cioccolata venirmi direttamente in bocca, riempirla di piacere senza sporcarmi, un’estasi priva di peccato. Le uniche seghe, ormai, le faccio su questo. Adesso è Emma la terza incomoda. 

   Domani, a colazione, ti concedo solo una mela.

   Desisto.

   – Sono stanco, amore. 

   Non se la prende. Sembra assorta.

   – Ho trovato dei lassativi in bagno.

   – Cosa?

   Cazzo. Non li ho rimessi a posto. 

       Cerco le parole per spiegare, ma lei le trova prima.

   – Sono preoccupata per Sara.

   Mi siedo a guardarla. Anche lei si tira su.

   – Sai che Erika non voleva più mangiare l’anno scorso? 

   – No.

   – Me l’ha detto sua madre. Non ne ha parlato finché non si è ripresa. 

       – È guarita?

       – Sì, ora sta bene. Però non vorrei influenzasse Sara. 

   – Sara non ha mai avuto problemi col cibo.

   – No, ma Erika potrebbe metterle in testa strane idee. I disturbi alimentari sono tipici dell’adolescenza.

   Non solo.

   – Tu non ne hai mai sofferto – osservo.

   – Per fortuna.

   Le do il tempo di chiederlo: e tu?

   Non lo fa. 

   – Domani ci parlo – la rassicuro. – Ma sono certo che quei lassativi non siano suoi.

   – Bè, e allora di chi? Di Bea? – ride.

   Abbasso lo sguardo. 

   Le dico che vado in bagno, lo raggiungo e mi ci chiudo dentro. Devo sapere. 

   Levo i pantaloni con la frenesia con cui avrei dovuto toglierli un minuto fa. Sento il pavimento ghiacciato sotto i piedi, ma non importa. Li poggio sul mio altare. Riprendo a respirare solo quando lo schermo mi mostra quanto valgo e il diaframma si distende. 

   Mentre ripongo la bilancia, sono un uomo degno perché i chili non sono aumentati. 

   Mentre nascondo i lassativi, sono il più grande disonesto. 

   Stasera volevo mangiare la pizza con la mia famiglia. Cazzo, se lo volevo. Ma quando Emma ha preso il telefono, non ce l’ho fatta. Lei me l’ha impedito. Credo che “per me non ordinarla” sia la frase che ho ripetuto più volte in questi mesi.

   Mentre cammino nel corridoio buio, penso che sarei un uomo ancora più degno se facessi qualche altra rampa di scale. Solo dieci minuti, per tenermi lontano da Emma. Per cancellare la tentazione di dirle della sua rivale, colei che manipola testa e corpo dell’uomo che ha sposato. Se non ho le forze per un orgasmo è perché devo accontentare lei. 

   Mi prenderebbe sul serio, Emma? I miei abiti camuffano la perdita di peso. E si sa che ad ammalarsi sono le ragazzine che aspirano a fare le ballerine o le modelle. Io non sono niente di tutto questo.  

   Ma allora, cosa sono io? Solo un malato?

   Un malato che corre.

   – Basta!

   Era la mia voce, quella?

   Allora dove finisce la mia e dove inizia la sua? Posso sottrarmi a ciò che comanda?  

   Quando torno in camera, non sento più le gambe. Emma è ancora sveglia.

   – Cos’era quell’urlo? 

   Due foglie di lattuga.

   – Lore? 

   Fortuna che le ho smaltite.

   – Lore, guardami. 

   Una fo… mi prende il viso. 

   Vede il mare.

   – Mi manca il sale – sussurro.

   Naufrago.

Novembre 2023

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