Alessandro barca

Gordon ti ama

ANNO 02 | NUMERO 17 | MAR 2024

«Gordon ti ama, Sylvie!»

Gordon ti ama, Gordon ti ama.

Quelle parole non fanno che echeggiarle nella mente. La scuotono come un terremoto. Arrivano prepotenti quando meno se l’aspetta, la atterrano, le tolgono il fiato, spietate come solo il destino sa essere.

Quel giorno sarebbe stato il suo compleanno.

Per un po’, non ci aveva fatto caso. Non che se lo fosse dimenticato: è che aveva preoccupazioni più grandi che starsene a fissare il calendario e tenere il conto dei giorni. Poi, quando lo aveva realizzato, una fredda, subdola consapevolezza sgusciò fuori dai suoi pensieri e finì per esternarla con un filo di voce appena percepibile. 

Quello sarebbe stato il suo ultimo compleanno

E nel momento in cui il sapore amaro di quelle parole toccò la sua lingua e si librò nell’aria, subito crollò a terra e pianse lacrime silenziose.

Sylvie uscì coi solchi delle lacrime ancora impressi sulle guance. Se ne accorse soltanto dopo essere salita in macchina, ma non le importava. Si passò un filo di trucco alla bell’e buona mentre accendeva il motore. Si fermò alla pasticceria dietro l’angolo e passò in rassegna tutti i dolci esposti in vetrina.

Alla fine, optò per la torta meringata alle fragole.

Pagò il commesso che la guardava con aria triste, forse per quelle lacrime che le erano rimaste incastrate tra le ciglia, o per l’incarnato pallido, che il trucco faticava a nascondere; poi si diresse all’ospedale. Non si prese nemmeno la briga di comprare delle candeline. Non le avrebbero permesso di introdurre oggetti potenzialmente pericolosi nel reparto dove era ricoverato.

Accese la radio e riconobbe una canzone piacevole, una di quelle che andavano di moda anni prima, quando si erano conosciuti. Sylvie alzò il volume e si lasciò cullare dalla melodia, finché non scoppiò a piangere.

Quelle parole non smettevano di tormentarla.

«Gordon ti ama, Sylvie!»

 

Sylvie è in piedi accanto al letto. La torta è ancora incartata sul comodino e lui non ha dato segni di averla notata.

Gordon si dondola avanti e indietro, seduto a gambe incrociate, le braccia premute sul corpo da una camicia di forza. Fissa un punto indefinito davanti a sé e dalle sue labbra screpolate esce un turbinio di parole confuse, nemmeno lontanamente comprensibili. Sylvie non ha idea di cosa vogliano dire. All’inizio, quando tutto era cominciato, pensava parlasse in una lingua straniera. Ma poi aveva capito: era la sua malattia a parlare per lui.

Un’infermiera gli sente la fronte e lui rimane impassibile. Non sembra percepire la presenza di altri intorno a sé.

L’infermiera fa un cenno a Sylvie e la accompagna sulla soglia della porta. Prova a congedarla con garbo:

«A momenti sarà tutto pronto. Perché non va a prendersi qualcosa da bere o da mangiare? Ha l’aria stanca…»

Sylvie annuisce. La sua presenza non fa alcuna differenza. E proprio mentre sta per andarsene, dalla stanza proviene un grido rauco, le prime parole di senso compiuto:

«Gordon ti ama, Sylvie.»

Un groppo le annoda la gola. Allora lo sa che lei è lì con lui!

Sylvie cambia idea.

«No,» dice, «voglio stare con lui.»

 

Il dottore disse che al momento non c’era cura migliore. Non disponevano ancora della strumentazione adeguata lì dove vivevano e avrebbero dovuto trasferirlo in città. Se ne sarebbe occupato lui personalmente. Sylvie si fidava del dottor Wilkins. Non sapeva se fosse per la parlata calma e rassicurante, o per l’aura benevola che emanavano i capelli canuti, ma qualcosa le diceva che Gordon era al sicuro con lui.

«Se i deliri non si attenuano e la sindrome maniaco-depressiva non accenna a migliorare,» aveva detto il dottor Wilkins scuotendo la testa, «temo che sarà necessario procedere con l’intervento.»

Il dottore non era entrato nei dettagli, ma Sylvie ne era rimasta comunque orripilata. Non aveva mai sentito nulla di vagamente paragonabile a quello che il dottore le aveva accennato. E non poteva fare a meno di chiedersi se, una volta finito, Gordon sarebbe tornato quello di prima, se Gordon l’avrebbe amata ancora, nonostante tutto…

 

Si erano conosciuti, ironia della sorte, a un matrimonio a cui erano stati chiamati entrambi a testimoniare, Sylvie per la sposa, Gordon per lo sposo.

«Quello è matto,» le aveva detto un’amica. «Ha i giorni contati, stammi a sentire.»

Ma Sylvie non era rimasta a sentire.

Alla festa, avevano ballato insieme e si erano ritirati per un sentiero sterrato che costeggiava il casolare che gli sposi avevano adibito per l’occasione. Sylvie si era ritrovata a camminare scalza, senza i tacchi che le avevano gonfiato e arrossato i piedi. E questo non le aveva impedito di seguire quel ragazzo affascinante, a tratti ombroso, che aveva conquistato la sua attenzione. Un ciuffo di capelli ribelli gli cadeva sugli occhi, di un azzurro glaciale, e Sylvie non capiva perché tenesse sempre la mascella contratta in un’espressione così severa. In realtà, era una persona squisita, raffinata, estremamente intelligente. Riflessivo e profondo. L’esatto opposto di quello che trasudava dai lineamenti rigidi e il volto squadrato.

Ma lei non l’avrebbe cambiato per nulla al mondo. Lui era quel che era: solo il loro amore contava.

«Vieni a inseguire la luna con me, Sylvie.»

Non l’aveva formulata come una domanda, piuttosto come un invito. E Sylvie l’aveva accolto. Le avevano detto di cosa soffriva quel ragazzo tetro, eppure così affascinante. Le avevano detto che non avrebbe potuto nulla per cambiare il corso degli eventi, eppure voleva provarci. Avrebbe mostrato a tutti che l’amore è la miglior cura contro ogni calamità, contro ogni male.

«Inseguiremo la luna insieme, Gordon,» gli aveva risposto, e i suoi occhi avevano brillato della stessa luce delle stelle.

 

Nessuno avrebbe mangiato la torta meringata alle fragole che Sylvie aveva comprato. Qualcuno l’avrebbe presto fatta sparire dal comodino. Forse un inserviente l’avrebbe buttata in un sacco dell’immondizia, o forse qualche infermiera troppo golosa l’avrebbe sgraffignata per sé.

Sono riusciti a calmarlo solo con una dose di barbiturici. In tutto quel tempo non ha accennato a stare meglio: i deliri sono ormai fuori controllo e ha già provato a uccidersi svariate volte. Il dottor Wilkins aveva avvertito Sylvie: lo avrebbero operato quel giorno. Sarebbe stata una cosa rapida, indolore, ma non si era sbilanciato ulteriormente. Sylvie ora sente tutto il peso di quelle parole non dette. Sa che non riavrà più indietro il suo Gordon. Lo sapeva dal primo momento in cui i suoi occhi avevano brillato della stessa luce delle stelle.

Quello sarebbe stato il suo ultimo compleanno.

Sono arrivate altre infermiere. Provano ad allontanare Sylvie, ma lei insiste per essere presente. 

Iniziano a legarlo con cura. Fanno sempre così quando sono osservate. Sylvie rimane a debita distanza e rivolge lo sguardo alla finestra sbarrata da grate di metallo davanti a lei. In quel momento, arriva il segnale, la sala operatoria è pronta: si può procedere. Trattiene il fiato e si sente soffocare.

Le infermiere lo spingono fuori dalla stanza, immobilizzato al lettino, incapace di muoversi, fino al corridoio.

Sylvie lo sfiora con le dita della mano in un saluto silenzioso. Gordon la fissa, apre la bocca come per parlare, ma intontito com’è di farmaci non riuscirebbe neppure a mettere insieme due parole di senso compiuto.

Eppure, a Sylvie pare di udire qualcosa, mentre Gordon si allontana lungo il corridoio verso il suo destino.

«Vieni a inseguire la luna con Gordon.»

I suoi occhi si riempiono di lacrime e nel corridoio rimane solo lei.

«Sì, Gordon,» sussurra Sylvie, «presto torneremo a inseguire la luna.»

Marzo 2024

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