Cristi Marcì

Prigionieri d’amore

ANNO 02 | NUMERO 18 | APR 2024

Le pulsazioni delle sue tempie erano come impazzite. 

Il corpo rigido, prigioniero nella sua postura. 
Il tempo bloccato nei suoi ingranaggi. Le parole incastrate in gola.
Ormai prossime a spegnersi.
Così impotenti, da non riuscire a spezzare quelle catene capaci ancora una volta di trasformare quell’ennesimo e banale litigio in un vero inferno.
Come le precedenti, anche quella sera la cucina aveva assunto il terribile volto di un ring; luogo prediletto dove le posate, i piatti e i bicchieri erano ormai da tempo spettatori di una violenza e di un’aggressività così taglienti, che neppure la lama più affilata di un coltello sarebbe stata in grado di infliggere un dolore così cocente. 
Eppure quel nemico invisibile e al contempo dirompente, scandiva già da un anno le loro giornate. Depositando senza sosta le sue lancette lungo i loro caratteri differenti e così distanti. Imponendo ad un ritmo sempre più accelerato l’apprendimento di nuove regole con cui prima di conoscersi non avevano ancora fatto i conti. Delineando mese dopo mese una sequela di convinzioni che automaticamente entrambi traducevano in gesti all’apparenza privi di significato. 
A ogni modo l’unica legge pronta a scalfire l’ultimo briciolo di rispetto reciproco, si manifestava puntualmente in un’equivalenza distorta e priva di equilibrio: quella del più forte. Da tempo Matteo era bersaglio di quel vulcano sempre pronto e mai in ritardo nell’eruttare una lava incandescente di parole e intente a bruciare ogni possibile forma di istantaneo ricongiungimento. Lui questa modalità proprio non la capiva, non era sua. Non gli apparteneva. Dai suoi amici e parenti veniva sempre descritto come pacato, calmo, posato e tanti altri aggettivi che, seppur in sintonia con il suo essere, correvano il rischio di collocarlo in un gradino al di sotto di quello che nel gergo comune veniva banalmente definito superiore. Un essere in grado di imporre la sua autorità solo ed esclusivamente attraverso un timbro di voce che ogni sera sembrava creare delle crepe lungo le pareti attraverso le grida e le urla. In quei frangenti Matteo si sentiva smarrito, confuso e scosso da un’energia che rischiava di tradursi nel peggiore dei mali. 
Ne aveva parlato molte volte con la sua psicoterapeuta, la quale a più riprese non aveva tardato a confermargli quanto la sua pacatezza fosse per paradosso l’arma migliore di cui potesse disporre in quegli istanti. Durante i quali la lucidità della sua compagna cedeva prontamente il posto ad una furia di cui lui stesso si era convinto di essere la causa. “I rapporti di coppia nel bene e nel male riflettono la forma più primitiva di psicosi” gli aveva rammentato la dottoressa quella stessa mattina nel suo studio. “Siamo esposti a forze ed energie che non possiamo controllare; a volte portano del bene, altre invece sembrano farci impazzire”.

….

Nel mentre che quelle parole riemergevano nella sua memoria, in cucina le urla avevano assunto la forma di numerose e sottili venuzze in grado di propagarsi in ogni distretto del suo corpo; trasportando un liquido che anziché rinnovare la più invisibile traccia di vita, non faceva altro che prosciugarla. Sino a sfinirlo. 
Gli insulti provenienti da quella profonda voragine, sembrarono trafiggergli il petto. Al pari di quei coltelli ben custoditi nella credenza. 
La rabbia alla quale si era ormai abituato e che scorgeva quasi ogni giorno sul volto della compagna aveva le sembianze di un appuntamento dai contorni spigolosi e dalle incerte sfumature. Di fronte alle quali sia la stabilità che la fragilità dovevano fare i conti. “Per quale motivo?” si era chiesto più volte. Troppe.

….

“La paura dell’abbandono spesso può rivelarsi così magnetica da ancorarci anche a quanto di più doloroso può intaccare il nostro equilibrio” gli aveva detto quella mattina.
“Cosa dovrei fare secondo lei? L’altro ieri ha fatto una sfuriata semplicemente perché riteneva che le avessi buttato dei trucchi, quando invece erano sotto una delle sue tante magliette sparse lungo il mobile del corridoio” le aveva risposto di rimando quel giorno con una goccia trasparente pronta a scendere dalla fessura laterale del suo occhio destro.
“Ogni volta spero che sia diverso, che vada meglio di prima, che qualcosa cambi, ma ripetutamente è sempre lo stesso copione. Lo stesso ritornello. Gli stessi insulti sputati addosso girono per giorno.”

….

“Hai sentito cosa ti ho detto? No non credo proprio, tanto sai solo startene lì in silenzio, muto come un pesce e con quella faccia da ebete. Non ne fai mai una giusta, che diavolo ti hanno insegnato i tuoi genitori lurido viziato che non sei altro. Io non ti svaluto dico solo la verità. E l’ho proprio qui davanti a me”. Gli gridò Clara in quella cucina ormai silenziosa e incapace di svolgere la sua normale funzione domestica. Perché in quello spazio di 35 mq c’erano solo loro due; 
urla, grida e silenzio. Urla, grida e silenzio. Urla grida e silenzio. 
Niente di più. Non un gesto rappacificatore, non una carezza. Niente di più. 
Urla, grida e silenzio….
 
Un tutt’uno.
Un miscuglio di dolore, rabbia e aggressività che il cuore e il corpo di Matteo faticavano a collocare nella categoria dei sentimenti e del rispetto. Tutt’al più erano utili sgretolare definitivamente quel rimasuglio d’amore che lo aveva tenuto legato a lei sino a quel momento. Proprio nella speranza che qualcosa cambiasse. 
Smosso dall’ennesimo cortocircuito, l’incantesimo nel quale era caduta la sua mente d’improvviso sembrò spezzarsi. Rompersi.
Portando il suo corpo a prendere nuovamente contatto con l’unico anfratto custodito al suo interno in grado di comunicargli il passo successivo e inevitabile da compiere. Da tempo oggetto di discussione con la terapeuta.
“Nel momento in cui avrai la sensazione di crollare e di restare prigioniero, ricordati che sei tu ad avere in mano le redini”.
“In che senso non capisco” le aveva risposto di rimando Matteo incuriosito.
“La dipendenza affettiva è una strada molto delicata da percorre, dove il legame che crei con l’altra persona rischia di forgiare in maniera indissolubile la tua identità. In questo caso Matteo, tu non sei esclusivamente la vittima dei suoi attacchi verbali. Sei una delle tante pedine che sono finite sulla sua scacchiera e che le consentono un movimento”
Catturato da quel nuovo, eppure semplice, ragionamento cambiò posizione su quella sedia di pelle accogliente e dal colore marrone. Sulla quale le sue paure e il suo dolore si erano accomodati per troppo tempo.
“Vuole dire che finché sarò presente, Clara continuerà a servirsi di questo mio movimento?”
 
“Esattamente” gli rispose la terapeuta con un accenno di sorriso. “Quello di cui lei ha bisogno è un appoggio, un piedistallo su cui aggrapparsi. Attorno al quale far ruotare ciò che per lei è ancora irrisolto. L’unico prezzo da pagare è assumere in tutto e per tutto la forma di contenitore sia delle sue emozioni positive che di quelle negative.”
“Stasera tanto sarà di nuovo tutto punto e d’accapo” rimarcò Matteo.
“Dipende solo da te abbandonare questa prigione sicura. 
Ci sarà un momento in cui il tuo corpo ti invierà dei segnali, in cui qualcosa al di là della tua ragione sembrerà prendere il sopravvento. Quello che ti apparirà strambo, imprevedibile e fuori luogo sarà il segnale esatto; in cui non sarai tu Matteo, per come ritieni di conoscerti, a chiudere definitivamente la parentesi di questa storia, bensì un’altra parte di te che è pronta ad emergere e a guidarti”.

….

Le pulsazioni delle sue tempie erano come impazzite. Il corpo rigido, prigioniero nella sua postura. Il tempo bloccato nei suoi ingranaggi. Le parole incastrate in gola.
Ormai prossime a spegnersi. Così impotenti, da non riuscire a spezzare quelle catene capaci ancora una volta di trasformare quell’ennesimo e banale litigio in un vero inferno.
I suoi passi lo portarono dalla cucina sino alla loro stanza da letto, dove una volta entrato le sue mani aprirono il secondo cassetto dell’armadio in cui erano riposti un paio di jeans e la sua felpa preferita dei Lakers. Un regalo di suo padre. Il suo scudo colo giallo e viola.
“Ma che diavolo stai facendo? Esci a quest’ora di sera?” chiese con fare clemente la sua compagna.
La sua mente era come concentrata e al tempo stesso lontana da quella stanza. Persa e smarrita in qualsiasi altro luogo che non fossero quelle mura.
“Che stai facendo”? lo interrogò Clara, nel mentre che lo vedeva prendere il suo Mp3 blu, il portafoglio e un mazzo di chiavi di cui lei stessa non conosceva la provenienza.
“Ti ho chiesto dove hai intenzione di andare. Perché hai preso queste cose Matteo?”
Le sue grida vennero coperte da un ritmo che dalle cuffiette dell’Mp3 iniziò a propagarsi ai i suoi timpani, restituendogli una nuova colonna sonora in grado di ripristinare un nuovo cortometraggio. Nel mentre che selezionava la traccia, Clara ostruì il suo passaggio, stagliandosi tra il suo corpo e la porta; il suo sguardo era un lampo nella notte, le sue parole un tuono assordante. 
Le sue dita un po’ bianche un po’ rosse sottili chiuse in un pugno. Pronto a scagliarsi in un vuoto entro il quale Matteo aveva esaurito le scorte.
Restìa a lasciarlo andare, le sue mani lo afferrarono per il colletto della felpa, che stretta fra le sue dita sembravano ghermire l’ultima pedina della sua vita; quella che con tanta difficoltà era riuscita a far entrare e che adesso era l’ultimo ostacolo ad un abbandono ormai certo.
“Dove cazzo stai andando” gli intimò con una voce incrinata dalla consapevolezza che l’ultima catena stava ormai per spezzarsi.
Di fonte a quel viso contorto in una smorfia di dolore, sorpresa e incredulità, la mano di Matteo (una volta rimossi gli auricolari) prese ad accarezzarle una delle guance rigate dalle prime lacrime; e guardandole gli occhi inchiodò quella paura che per anni aveva assediato il suo cuore; “Io non ti sto abbandonando, sto dando solo ad entrambi la possibilità di ricominciare le proprie vite. E se sei davvero pronta ad ascoltarmi sappi che anche in quei terribili momenti ti ho amata. Ma non posso rischiare di tralasciare l’amore che ho per me stesso a discapito di un dolore che non vuole cambiare forma. Tu non sei cattiva Clara, ma se vogliamo conoscere la serenità dobbiamo imparare a conoscere la solitudine. Con quello che abbiamo e che non dobbiamo mai abbandonare in funzione di un’altra persona. Specialmente quando i sentimenti bussano alla nostra porta”.
Memore di quello che aveva rimarcato la dottoressa si fece spazio tra quella che era stata la carnefice dei suoi sentimenti e ponte levatoio tra il loro rapporto e quel mondo che adesso sembrava aspettare il suo ritorno. Così prima ancora che i suoi pensieri potessero fare marcia indietro ed essere nuovamente dirottati, le sue gambe e le sue mani misero in scena una sequenza di movimenti così armoniosi ed equilibrati, che al pari della sua stella del basket di cui indossava la felpa gli fecero compiere un nuovo salto: quello verso la libertà. 

Aprile 2024

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