Giampaolo Iacobelli

Come ogni mattina...

ANNO 02 | NUMERO 18 | APR 2024

…scendevo le scale di casa in preda a pensieri del tutto ordinari. Troppo ordinari, direi, col senno del poi… 

Solo per un brevissimo istante percepii con la coda dell’occhio, al di là della vetrata che dava sul cortile, un elemento estraneo al quadro visivo di quel tragitto compiuto migliaia di volte. Non ci badai, continuai a scendere, raggiunsi il portone e uscii. In cortile, il lieve spaesamento dato da quell’elemento inconsueto, si ripresentò amplificato a causa di un intenso afrore e un rumore, entrambi inconfondibili. L’afrore era di stalla, il rumore era chiaramente di zoccoli.
Era lì, davanti alla porta del garage, a una ventina di metri dal viale del condominio e dal gabbiotto del portiere. Colossale, stupendo, di un marrone talmente scuro da virare al nero, senza finimenti, regale nella sua immobilità interrotta solo da sporadici passetti sul posto.
Pareva osservarmi. 

Accanto alle prevedibili sensazioni di stupore e allarme, dentro di me fece capolino una strana eccitazione. Mi girai attorno guidato dallo stupore, sicuro di trovare una rapida spiegazione a quella presenza, ma in giro non c’era nessuno, né vi era traccia di camion adatti al trasporto animali. Allora l’allarme prese il sopravvento: una bestia di quelle dimensioni, slegata, in un condominio pieno di bambini e anziani. Era pericoloso. 
Era folle. 

Continuai a girarmi attorno, ricontrollando stolidamente le stesse porzioni visive alla ricerca del proprietario. L’irreale silenzio in cui il condominio era immerso mi fece scorrere un brivido lungo la schiena.
Tornai a guardare il cavallo. Non c’era alcun dubbio che mi stava fissando. E sembrava uno sguardo di malinconica compassione. Restai per un attimo irretito in una trama di pensieri allucinati, da cui mi costrinsi ad uscire aggrappandomi alla cogenza degli impegni quotidiani. Presi il cellulare, controllai l’orologio. Poi presi le chiavi dell’auto dalla tasca. Ma dopo poco riposi tutto. Feci qualche passo verso il cavallo, guardingo, preoccupato in egual modo dalle sue reazioni e dalla possibile comparsa del padrone. Il cavallo alzò un po’ la testa, con sussiego, sempre guardandomi. Mi avvicinai ancora con lentezza quasi ridicola, ma, quando ero ormai a pochi metri, una coppia di vicini entrò nel viale. Mi paralizzai, mortificato come un ladro occasionale scoperto a rubare, ma anche desideroso di leggere nei loro occhi una spiegazione a quella faccenda. I vicini passarono salutandomi, come se in quella scena non ci fosse niente di strano. Gettarono un’occhiata veloce al cavallo, un’altra appena imbarazzata a me, poi tirarono dritto. Forse fu solo un’impressione, ma andando via accelerarono un po’ il passo. L’idea che avessero ritenuto il cavallo di mia proprietà mi diede un pizzico di orgoglio e mi venne da ridere. Dentro di me stupore e allarme si dileguavano, l’eccitazione cresceva.

Feci un ulteriore passo verso il cavallo, ma fui interrotto di nuovo, stavolta dal portiere, che uscì dal gabbiotto berciando al cellulare mescolando russo e italiano. Contemporaneamente un grosso camion entrò nel condominio parcheggiando proprio vicino al gabbiotto. La soluzione dell’enigma era lì, ma ora ne ero rattristato più che curioso, e mi voltai a guardare il cavallo, che pareva condividere la mia delusione. Mi resi allora conto sia che stavo accumulando un ritardo pazzesco per l’ufficio, sia che dovevo parere un idiota, imbambolato in mezzo al cortile vicino ad un cavallo non mio. Dal camion scesero due uomini in divisa, andarono ad aprire il portellone del bagagliaio, mentre il portiere gli faceva cenni col capo continuando a parlare al cellulare. Mi preparavo in cuor mio a dire addio al bel cavallo. Mi voltai di nuovo verso il camion e vidi che i trasportatori scaricavano dei pesanti pacchi, mentre il portiere, terminata la telefonata, mi fissava con uno sguardo stranissimo, per metà di rimprovero, per metà di complicità. Ero a disagio e pensai di andare via, ma non potevo; finché il cavallo era lì qualcosa di irresistibile mi tratteneva. Violentandomi mi voltai verso il camion e l’emozione quasi mi fece tremare. I due trasportatori avevano posato tutti i pacchi in terra e avevano chiuso il portellone: non erano lì per lui! Il portiere mi fissava ancora, sempre con lo stesso sguardo. Di sicuro aveva colto il lampo di gioia nei miei occhi. 

Ora però il mistero si infittiva. Di chi era quel cavallo? Perché lo avevano lasciato lì? L’idea che la soluzione a quell’enigma sarebbe rimasta ignota non ebbe il tempo di consolidarsi che fui distratto dall’arrivo di un altro condomino. Stavolta mi avvicinai di proposito al cavallo, per dargli ad intendere che ne fossi il proprietario. Il signore mi salutò e passò via senza batter ciglio. Il portiere mi lanciò un’ultima occhiata e rientrò in guardiola. 
Da quel momento tutto cambiò. La curiosità era svanita. La paura era rimasta, ma non era per i bambini del condominio; era per me. Una paura ignota e informe, originata da qualcosa di oscuro perso nei meandri della coscienza e strettamente connessa a quell’eccitazione che ora mi pervadeva. Mi avvicinai con cautela al cavallo, sicuro ormai che lui lo volesse. Arrivatogli accanto gli poggiai una mano sul dorso. Lui si spostò e si fece scivolare la mano sul muso, come a chiedere una carezza. Deglutii stordito. Poi l’idea: lo avrei portato fuori di lì. 
Non sapevo dove, né tantomeno come, ma ero certo che era quello che sarebbe accaduto. E quando mi venne in mente che a pochi metri da casa avevano riaperto il parco Andersen esultai come un bambino. Lì la presenza del cavallo sarebbe stata meno strana e c’erano solo da fare poche centinaia di metri su un marciapiede. Un rapido sguardo intorno a verificare che non ci fosse nessuno e capii che era il momento. 
Mentre mi chiedevo come muovere un cavallo senza briglie, guidato dall’istinto gli feci una dolce pressione sulla nuca. Il cavallo cominciò a camminare. Con le gambe molli, il cuore in tumulto e la testa formicolante, percorsi i dieci metri fino alla strada. Dieci metri che parvero non finire mai. Arrivato in strada avvertii un dolce senso di liberazione – in quanto non avrei provato imbarazzo di fronte a passanti sconosciuti – che svanì quando realizzai che avrei potuto imbattermi nella polizia o in un vigile. Ma quell’idea non mi bloccò, le gambe andavano da sole. Mi incamminai deciso lungo il marciapiede che portava al parco, ostentando una sicurezza che non avevo. I passanti che incrociai guardavano il cavallo senza sembrare particolarmente incuriositi, un paio di bambini provarono ad accarezzarlo, subito fermati dai genitori. Dentro di me contavo alla rovescia i metri che mi separavano dal parco e benedicevo per la prima volta in vita mia il fatto di abitare in una periferia semi deserta. Più si avvicinava l’ingresso del parco, più la mia tensione aumentava, timoroso di vedermi sfuggire la riuscita dell’impresa proprio all’ultimo momento. Arrivato ad una ventina di metri dal parco vidi venire dalla corsia opposta un’auto della polizia. Il cuore cominciò a battermi in petto da farmi male e mi si seccò la bocca. Il cavallo percepì la mia tensione e perse il ritmo dell’andatura. Me ne sentii responsabile e provai a recuperare sicurezza, anche se mi sentivo di morire. L’unica speranza era che avessero priorità più impellenti di un cavallo a spasso per la città. Con gli occhi che si sforzavano di non guardare verso la volante, e con le gambe rigide come tronchi, proseguii accarezzando la nuca del cavallo. Quando l’auto arrivò alla mia altezza si fermò. Pur non guardandola lo capii dalle luci. Pensai che era tutto finito ed ebbi un fremito convulso che mi fece contrarre la faccia in una smorfia. Stavo per scoppiare a piangere, ma continuavo a camminare sforzandomi di dare naturalezza alla mia andatura.

Ogni passo era una tortura. L’ingresso era a non più di venti metri. Le luci blu continuavano ad illuminare i miei piedi ad intermittenza. In parte rincuorato dall’idea che forse la volante era ferma al semaforo, arrivai all’ingresso del parco e vi entrai senza voltarmi. Mi scappò una risatina isterica all’idea che se la polizia mi avesse fermato, avrei provato a fuggire in groppa al cavallo. Poi la luce blu scomparve dalla mia visuale. Incredulo mi voltai e, quando vidi la strada vuota, l’euforia fu tale che faticai a trattenere un urlo. Poi pensai che la volante poteva aver proseguito dritto per poi fare inversione di marcia all’incrocio e tornare indietro a prendermi. Diedi un paio di colpetti ravvicinati sulla nuca al cavallo che li tradusse correttamente aumentando il passo. Ci inoltrammo nel parco, a quell’ora del mattino quasi deserto. Ora la mia lucidità era aumentata, sapevo dove andare. C’era un vecchio steccato che separava l’area bambini da un pianoro solitario circondato da folti alberi. Lì saremo stati al sicuro, soli. Camminando all’unisono, arrivammo nell’area abbandonata. Ci fermammo e io crollai per terra a scaricare la tensione, assaporando per alcuni minuti un sollievo di una dolcezza senza termini di paragone nella mia vita recente. Ricordo anche che pensai di essermi meritato quel sollievo. Poi mi alzai, carezzai il cavallo e strofinai a lungo la fronte sul suo fianco possente. 
A quel punto però mi resi conto che non sapevo cosa fare. Avrei voluto montarlo, ma di equitazione non sapevo nulla e già con i finimenti avrei avuto problemi, figurarsi senza. Eppure eravamo lì, io e lui. Sapevo che dovevo montarlo. Prima di provare ricordo che gli parlai a lungo. Non ricordo cosa gli dissi, ma so che durante il monologo piansi anche. E lo accarezzi. E lo baciai. E il cavallo sembrava concordare con me su tutto. 
Quando mi sentii pronto, feci avvicinare il cavallo ad un tronco reciso che usai come scalino e gli salii in groppa. Subito mi tremarono le gambe e il petto mi si gonfiò di emozioni potenti. Lo abbracciai ancora. Poi osservai la città da quell’insolita altezza. Tutto mi sembrava meraviglioso. Con la solita pressione sulla nuca lo invitai a camminare e lui obbedì. Quando iniziammo a muoverci dentro di me fu il delirio. 

Non so per quanto durò quella prima passeggiata. Ero come in trance. In un attimo di lucidità mi guardai attorno e constatai di trovarmi in un punto del parco dove non mi ero mai spinto. Provai ad orientarmi e mi accorsi, con un ennesimo moto di gioia, che sulla destra il parco vero e proprio finiva e iniziava la campagna aperta. Come leggendomi il pensiero il cavallo ripartì in quella direzione. L’armonia fra di noi cresceva passo dopo passo. Ne sentivo ogni battito, ogni respiro. Dopo non so quanto mi girai indietro e vidi che parco, case, strade erano diventati piccolissimi. Davanti a me pareva distendersi un’unica grande macchia composta di tante sfumature di verde. Ansimavo leggermente. Feci un’altra pressione un po’ più forte sulla nuca del cavallo che, con una sbuffatina arguta, cominciò a trottare. E così procedemmo per altri chilometri dopo i quali ci trovammo nel nulla. Unico segno della civiltà era la sopraelevata dell’autostrada. Stavolta per orientarmi ci volle uno sforzo sovrumano. Quando alla fine capii che andando sempre dritti saremmo usciti dalla provincia e saremmo entrati nella riserva naturale, al confine regionale, mi parve di respirare fuoco. Non ebbi neanche il tempo di toccargli la nuca, che il cavallo partì al galoppo con tale veemenza che dovetti aggrapparmigli al collo per non cadere all’indietro. Una scarica di adrenalina mi percorse il torso e percepii affiorarmi in viso un’espressione che non potevo vedere, ma capivo essere di euforia selvaggia, Mi voltai un’ultima volta indietro, giusto il tempo di constatare che non si vedeva più nulla, poi tornai con lo sguardo fisso in avanti, verso le montagne. Stavo per lasciarmi andare del tutto, affidandomi al cavallo che fendeva gli arbusti come un treno. Dopo un po’ riuscii a sollevarmi sul suo dorso, nonostante il galoppo fosse ancora furioso. Ero invaso da una sensazione di potenza. Fu allora che qualcosa di ribollente e virulento mi risalì dal petto e uscì dalla bocca trasformato in un urlo bestiale, mandandomi in un tale deliquio che per un attimo persi la vista. Ma non ne ebbi paura. Eccitato dall’urlo, il cavallo spiccò un salto eccezionale, restò in aria per qualche istante e riatterrò pesantemente al suolo, prima di riprendere a correre. Procedendo ad andatura folle, in pochi minuti coprimmo la lunghezza del vallone che immetteva nel territorio della riserva. Alla fine del vallone cominciava una fitta boscaglia. Il cavallo si fermò. Restai incantato per non so quanto tempo a guardarmi attorno, accarezzandogli il manto. L’ultimo barlume di raziocinio, come un’eco lontana, mi avvertì che se mi fossi addentrato oltre mi sarei sicuramente perso. 
E fui attraversato da un lungo brivido colmo di voluttà. 

Il cavallo riprese a camminare e lentamente entrammo nel folto del bosco…

Aprile 2024

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