JAcopo Zonca

Dritto al punto

ANNO 02 | NUMERO 20 | GIU 2024

La vista dal cornicione è perfetta: sotto di me le macchine procedono lente e i raggi del sole si riverberano sulle carrozzerie e sopra le vetrine dei negozi. La città si sta svegliando, sento il freddo grattarmi le guance e pungermi le labbra mentre osservo la strada sotto di me. 

Apro il borsone, metto la faretra a tracolla, accarezzo le frecce. Il giubbotto limita i movimenti, ma riesco comunque a controllare l’arco. 

Preparo la freccia, tendo la corda fino a sentire i muscoli dell’avambraccio tesi quanto basta a dare la giusta potenza. Le vibrazioni che salgono dalla colonna vertebrale collimano in un piccolo prurito sul collo. Sono immerso in un istante di nulla in cui le uniche cose presenti sono l’arco, la freccia e il bersaglio. Tutta la vita si misura nell’istante in cui tiri la corda e molli la presa. Lascio andare un sospiro, una nuvoletta di condensa esce dalla bocca. Scocco. 

In una frazione di secondo il suono di una martellata e il dardo che buca un cartello di direzione obbligatoria. 

Innesto un’altra freccia. Passo al cartello dei lavori in corso vicino all’incrocio, la strada è vuota. Lascio andare la corda. Lo centro, ancora quel suono simile a un colpo di martello sul metallo. Il cuore pompa. 

Quel segnale di stop all’incrocio è un bersaglio perfetto. Miro, ancora una volta il braccio teso e i muscoli che si riscaldano. Lascio andare, la vibrazione dell’arco quando scaglia la freccia è un brivido sublime. 

Dal borsone prendo il cannocchiale e controllo. Ho centrato la testa tonda e nera dell’omino stilizzato sul cartello. Queste frecce con la punta di rame trapassano anche il cemento. Ottimo regalo di Natale, grazie mamma. Un regalo che però non mi servirà. 

Qualcosa mi strappa l’anima in piccoli pezzi quando ripenso al messaggio di ieri sera. Mi lampeggiano negli occhi ancora quelle due parole “non ammesso”

Tutta la squadra in ritiro, tutti tranne me. Questo vuole dire non partecipare al campionato. Sentivo di avere trovato la direzione giusta, che la vita sarebbe stata bellissima d’ora in poi, che non ci sarebbero più stati buchi neri e infiniti, li avrei sconfitti con il mio arco. 

La tristezza mi risucchia. Tutto è sotto una bolla di vetro, non riesco ad andare oltre quella barriera. 

Carico una freccia, tengo l’arco basso cercando di individuare il prossimo bersaglio, poi penso a Rossi, che, anche se a tirare fa schifo, vincerà il campionato, perché sta simpatico a tutti ed è raccomandato dai giudici.  

Il suono della corda che si tende è una sinfonia di gioia. Una musica splendida che risuona dentro me stesso per poi esplodere in un urlo trattenuto in gola. L’invidia mi sta stritolando. 

Sto piangendo, la corda dell’arco trema insieme alla mano. I muscoli del braccio mi fanno male, scaglio verso il sole, voglio essere come quella freccia che sale e poi osservare il mondo dall’alto.

La consapevolezza della delusione dà al cielo una consistenza liquida, come se qualcosa potesse sommergermi da un momento all’altro. 

Un’altra freccia, mi asciugo le lacrime. Il prossimo bersaglio sbuca da un angolo, cammina lento sul marciapiede, porta una valigetta in mano e ha una bella cuffia gialla. 

È semplicemente perfetto. 
Entro in casa, ho freddo. La testa gira, lascio il borsone in corridoio e mi sfilo cuffia e giaccone.   

Cerco di distrarmi guardando l’albero di Natale con le sue piccole lucine intermittenti blu e rosse. Il respiro concitato mi ricorda ogni secondo quello che ho appena fatto. Entro in cucina e mi siedo al tavolo. La televisione sopra il frigo è accesa e sintonizzata sul telegiornale. 

Il calore del termosifone mi fa sudare e amplifica il profumo delle lasagne che stanno cuocendo in forno, facendomi venire la nausea. Asciugo la fronte con un tovagliolino di carta, la porta si apre, entra mia madre in vestaglia con i capelli raccolti in una piccola coda di cavallo. 

È sempre bella mia mamma. 

La giornalista che sta annunciando le notizie gracchia qualcosa che rimbomba nella piccola cucina.

Sento i muscoli della faccia pietrificati in un’espressione di morte. La mamma mi guarda e spalanca gli occhi. 

“Davide, cos’è successo?”

Aspetto un istante, tengo gli occhi bassi. “Stamattina sono salito sul cornicione del palazzo in costruzione qui dietro. Ho portato l’arco e le frecce.”

“Che cos’hai fatto?” chiede la mamma mentre si siede. 

“Stamattina sono salito sul cornicione del palazzo in costruzione…”

“Sì, ho capito. Ma perché sei salito sul cornicione con l’arco e le frecce?” il respiro della mamma si fa concitato. Sento un’irrefrenabile voglia di pisciare.

“Sai… ci sono rimasto male per la mail di ieri sera. Quella in cui mi hanno detto che… Sono escluso dal ritiro. Non vincerò mai il campionato mamma.” una coltellata, ecco che ricomincio a piangere. 

Una nuova notizia al telegiornale. L’annunciatrice dice che un uomo è morto. 

Mia madre gira la testa di scatto in direzione dello schermo, mentre per un secondo dimentico di respirare. 

Un altro morto sul lavoro. L’operaio ventiduenne originario del Ghana è caduto da una gru…

Mi guarda ancora, ha la faccia del colore delle stoviglie apparecchiate sulla tavola.

Rimaniamo così per qualche istante, fisso i suoi occhi marroni, voglio perdermi in quella loro profondità infinita. Viene in mio soccorso cambiando canale. 

Forse è meglio riprendere la terapia, ma il solo pensiero di rivedere il dottore e di riprendere le pillole mi annienta. 

“Ho rischiato di colpire un tipo.” non la guardo.

“Davide dimmi la verità. Hai fatto del male a qualcuno?” ora la sua voce è stridula. 

“No! Devi credermi. Volevo colpirlo, ma alla fine ho mirato a un altro cartello. Ti prego non rimandarmi in quel posto, non voglio rivedere quello stronzo di dottore, ti prego mamma” supplico, quasi sibilando. Mi guardo attorno, cerco qualche appiglio che possa ispirare una frase, il mio sguardo si fissa sul quadretto appeso al muro che ritrae un mazzo di ciclamini viola.

Ho voglia di abbracciarla, di farmi prendere in braccio come un bambino appena nato. Ho bisogno di una stretta che non mi faccia pensare a nulla. Ma lei non fiata, si passa l’indice smaltato sulle labbra. 

“Be’… Alla fine non hai fatto male a nessuno, vero?”

Annuisco nervoso. 

“Questo è l’importante, no?” continua lei con un mezzo sorriso. 

In un attimo torno in me. Sento il cuore che si apre, il ghiaccio si scioglie in un baleno e la vita ricomincia a sgorgare da qualunque cosa, uno strano senso di fame mi invade insieme alla felicità. Adesso che la mamma mi ha perdonato si ricomincia, mi allenerò ancora, ancora, e ancora di più. vincerò il prossimo campionato!

La mamma mi accarezza la mano. “Mangiamo?”

Così ci rilassiamo, ridiamo, scherziamo, mi dice delle cose che non conoscevo mentre divoro la lasagnetta che ha preparato, racconta dettagli su quando ero piccolo che manco pensavo esistessero, tipo che il papà un giorno ha fatto lo sporcaccione con la tipa più giovane con cui poi è scappato, proprio qui in cucina, quando avevo tre anni. Mica me lo sarei immaginato. 

Sto per finire la lasagna ancora calda di forno quando la mamma cambia canale e torna sul Tg. Alza il volume ed ecco di nuovo la conduttrice che sputa un’altra notizia. 

“Prima di lasciarvi dobbiamo darvi un ultimo aggiornamento, un cadavere è stato ritrovato circa mezz’ora fa…” 

Giugno 2024

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