Edoardo Balacchi

Max

ANNO 02 | NUMERO 20 | GIU 2024

C’è qualcosa che mi vuoi chiedere?

Joe sembra amichevole ma non lo è. Mentre mi mostra l’ufficio ha un ghigno strano, arabesco. Ha una faccia storta che sembra scolpita nella pietra, ricorda una montagna devastata da una frana improvvisa. Mi squadra, si sforza di sorridere. 

Durante tutta la visita si è dimostrato disponibile e cortese, anche se in un modo stranamente freddo, quasi non fosse la sua vera natura. Mi ha indicato la stanza delle fotocopie, il magazzino, l’ufficio dell’amministrazione, precedendomi a falcate sicure. Ora mi sta davanti e si sforza di continuare la recita.

So che non dovrei chiedergli di Max, mi hanno detto tutti che qui dentro è un tabù, eppure lo faccio.

Che fine ha fatto Max?

Qualcosa nella granitica sicurezza di Joe s’incrina, vacilla. Io deglutisco. Lui mastica qualcosa senza dir nulla. Alla fine mi posa una mano sulla spalla – ha una mano enorme e callosa e paterna, da vero marinaio – e mi dice: Dipende da chi lo vuole sapere.

Per Luciana dell’amministrazione quella di Max è una fine tremenda. Nelle pause caffè me l’ha confidato parlando come una ventriloqua.

Le ho osservato a lungo la bocca, una voragine slabbrata bordata di rossetto, mentre sussultava e impastava le parole con un’urgenza preoccupante.

Non so cosa ti abbiano raccontato, non l’ho mai conosciuto di persona, ma l’ultima volta che qualcuno l’ha visto era da solo nella stanza delle fotocopie. La luce andava e veniva, hai presente, no, la luce continuava a spegnersi, i neon dico, i neon friggevano e Max rideva, dio se rideva, ma rideva con una tristezza infinita, come quei pagliacci che al circo escono per recuperare un collega mezzo divorato dal leone o dal pubblico. Era nella stanzetta, là in fondo, era in piedi e rideva e teneva le forbici in mano. E rideva.

Di solito “Ti faccio fare la fine di Max” è la minaccia che si sente rivolgere dai vari capi ufficio ai loro sottoposti quando li fanno incazzare oltre una soglia ritenuta accettabile. So che formalmente ogni utilizzo del nome di Max è fortemente stigmatizzato dalla Direzione: ci dev’essere pure una circolare in merito, da qualche parte. Eppure il nome di Max e la sua storia si propagano lo stesso come una malattia infettiva. Ti faccio fare la fine di Max se non stai attento, se non la pianti, se non impari a svolgere bene il tuo cazzo di lavoro. Ti faccio fare la fine di Max.

Quale sia stata la fine di Max nessuno lo sa con esattezza. 

Mentre lavoro cerco in fondo ai cassetti qualche indizio. Ci sono solo appunti incomprensibili, istruzioni. Procedure da seguire per costruire cose tremende, carte di caramelle, cacciaviti, guanti in lattice. Tutta la carta vecchia che fa da fondale ad ogni nostro sogno diventa fragile come cenere, al risveglio, si frantuma e ci sporca le dita di ricordi spiacevoli.

In fondo alla catena alimentare dell’ufficio si favoleggia molto attorno alla figura titanica di Max. Nelle orazioni smozzicate degli stagisti, nelle pratiche accucciate in sotto strati di polvere e bestemmie ricamate a mano, nelle voci perverse delle donne delle pulizie albeggia l’essenza di Max come un’espiazione.

Gli Ultimi mi hanno preso da parte, appena arrivato, e mi hanno obbligato ad ascoltare i loro deliri, riconoscendomi come loro consimile.

Lo stagista brufoloso, quello che esce con la neoassunta pallida, mi ha sussurrato una sua versione dei fatti. 

È nei sotterranei perché sapeva qualcosa di troppo. Li metteva in pericolo, li faceva tremare. Nessuno di noi l’ha mai incontrato di persona ma l’altro giorno abbiamo sentito la sua voce mentre cantava. Camminava nei corridoi sotterranei incespicando come un ubriaco e intanto cantava un vecchio brano in francese. O in tedesco, ora non ricordo, in ogni caso cantava e sembrava felice. Laggiù non possono più licenziarlo né fargli male, laggiù è lui che comanda. Secondo me sta raccogliendo le prove e le idee, si sta preparando per il gran finale. Secondo me li manda a casa tutti. O peggio.

Solo Saverio sostiene che quello di Max fosse un problema di altra natura. Roba di corna, di cazzi e di fighe.

Saverio è il collega più sboccato. Dentro il suo armadietto sta appeso un calendario pieno di donnine disinibite che si strizzano i seni e inarcano la schiena. 

Secondo lui, Max aveva parecchio successo con le donne, con tutte le donne a prescindere dalla RAL, dal colore di capelli e dalla fascia d’età. Era come un gioiello, Max, come una settimana bianca in alta stagione, come una rosa privata delle spine: un regalo che nessuno poteva rifiutare.

Secondo Saverio Max aveva avuto una relazione torbida e durevole con la responsabile del servizio relazioni esterne, che aveva peraltro lasciato il lavoro da poco. 

Anche Saverio se l’era portata a letto, tempo fa, e lei gli aveva raccontato nei minimi dettagli tutto ciò che era successo con Max in ascensore. Max l’aveva fatta godere come mai in vita sua, le aveva insegnato cos’era il sesso. L’aveva squartata distrutta sfondata riempita esplosa infuocata, le aveva trasmesso una malattia incurabile, la malattia del piacere. Era colpa di Max se la sua vita era andata a catafascio, era colpa sua se le era cominciato quel vizio di portarsi i colleghi maschi in bagno per schiacciarli con la suola delle scarpe e compiacersi del loro dolore, era decisamente colpa sua se l’avevano pizzicata nel mezzo di una riunione mentre si dava piacere con un vibratore XXL mormorando il nome di Max come una preghiera proibita e prodigiosa.

Max ha rubato, fecondato, intascato, denunciato, smascherato. Max è nel sotterraneo, dietro le palpebre quando andiamo a dormire, negli aloni di sudore proiettati dalle ascelle del mondo. La sua figura ambivalente è rimasta impigliata nello scorrere di alcune mail che trovo per caso, frugando negli archivi del vecchio computer che mi hanno assegnato. Già all’epoca era una leggenda di cui si parlava malvolentieri. Qualunque cosa avesse fatto, Max era diventato subito un segreto per iniziati. Joe era in copia in alcune mail compromettenti fra dirigenti che s’interrogavano sul mistero di Max.

Ma chi lo conosce, esordiva uno rivolgendosi a una platea nobilissima di pari. 

Non è nessuno. È un nonnulla, l’ennesimo nonnulla con cui ci vogliono ribaltare.

Bisogna andare con calma. È indispensabile predisporre un tavolo di lavoro.

Il legale è allineato? Compliance?

Io non ne sapevo niente fino a ieri. Qualcuno mi aggiorna per favore?

Joe si mangia ogni giorno un sandwich unto di formaggio semisciolto. Mastica, si pulisce le dita nella stoffa della sua stessa sedia, scorre pigramente le mail. Siccome è seduto di fronte a me, ogni tanto lo sorprendo mentre mi spia.

Quando i nostri sguardi s’incrociano mi sorride come farebbe uno zio perverso con la nipote appena diventata maggiorenne.

Ancora impegnato con quella pratica?

Mi sbircia lo schermo, con ogni scusa prova a frugarmi nel cassetto.

Un giorno trovo un post-it incollato allo schermo. C’è scritto solo “MAX” a caratteri maiuscoli, nient’altro.

Saverio minimizza. Sono scherzi fra colleghi. Capita a tutti, un po’ di sano nonnismo. Fortifica il carattere. A lui hanno nascosto la sedia, una volta. Ha dovuto lavorare in piedi per due giorni prima che si decidessero a restituirgliela. 

A Max era andata molto peggio. Secondo Antonella delle Risorse Umane qualcuno gli aveva riempito la cassettiera di calabroni. C’era un nido, là fuori, sotto la finestra. Qualcuno l’ha staccato e infilato nella cassettiera di Max. Io non c’ero, me l’hanno raccontato. Ci sono volute tre settimane per debellare tutti gli insetti. Max è stato punto sulla mano e sulla faccia, è caduto dalla sedia, ha avuto uno shock anafilattico. Non è morto, comunque, grazie a Dio. Poteva andare molto peggio, no? Poteva farci causa, se ci pensi.

Gli scherzi proseguono. Un giorno mi appare come salvaschermo un capezzolo. Un’altra volta qualcuno mi graffetta la giacca all’appendiabiti. Ne parlo con Antonella, con il suo capo. Mi dicono di stare tranquillo, ché il nostro ufficio è un’isola felice. Non è mica come il mondo di fuori, qui siete nella bambagia.

Il capo del personale mentre parla svogliato controlla continuamente il telefono, lascia le frasi a metà perché Antonella le completi balbettando.

Non è mica… non è…

Non è mica come la storia di Max.

Joe una mattina mi porta una brioche. Un gesto distensivo, dice.

La assaggio con cautela. Temo che dentro ci siano pezzi di vetro o merda o veleno, invece non trovo nulla di strano. È solo una normalissima brioche alla marmellata. Il tovagliolo del bar che la avvolge è appiccicoso, il ripieno troppo dolce. 

Joe mi guarda mangiare con un sorriso appena accennato. Mi dice: Dovremmo uscire a berci qualcosa, noi maschietti, una sera di queste. Dovremmo parlare un po’.

Mentre mi lavo i denti nel bagno degli uomini sento qualcuno che piange. Viene dalla parete sottile che ci divide dalla toilette delle donne. La ragazza che sta parlando al telefono dall’altra parte singhiozza e tira su col naso. Non la riconosco.

È impazzito, mamma. Ho paura di stargli vicino perché l’hanno fatto impazzire. Ho paura che succeda anche a me, qui dentro ti mangiano l’anima e ti obbligano a guardarla mentre se la cacano fuori. Io torno giù, ma’, mi spiace per tutti i soldi che vi ho fatto spendere, mi spiace davvero. Dovevo stare al paese, teneva ragione zio. No, ma’, tieni ragione pure tu, tenete ragione tutti quanti. Tieni ragione, ma’, ma io nun c’a fazz cchiu…

Il giorno dopo non riesco più ad accedere al mio computer. Password errata. Joe mi scruta da sopra il monitor, vedo solo gli occhi, non capisco se sia serio o se stia ridendo. Ritento, password errata.

Non mi accetta la password, dico rivolto al vuoto cosmico che mi circonda.

Hai provato col tuo nome?

Ritento, password errata.

So dove devo cercare. Un istinto mi attira verso il basso. È così che finisco da solo nei sotterranei. Gli stagisti mi hanno accompagnato alla soglia del loro inferno personale e si sono fermati. Da qui devi proseguire da solo. Ci sono i tubi sul soffitto, i tubi sono la via. Se li segui in un verso ti portano al locale caldaie, se li segui nell’altro ti condurranno dovunque vorrai.

Voglio che i tubi mi conducano altrove ma so che devo scendere, allora comincio a seguirli. Le pareti dei sotterranei sono tutte uguali ad eccezione di alcuni graffiti. Ci sono scene di sesso stilizzato e scene di caccia, mani nere. Le pareti s’inabissano e si tingono di nero, fa più caldo. Il locale caldaie dev’essere qui vicino. Svolto l’angolo, sento i piedi farsi pesanti e rallentare, dev’essere la gravità, dev’essere il radon. Scendo. 

I graffiti dopo le scale si fanno più intricati, ora sono quasi una coperta che avvolge tutto il corridoio mimetizzandosi con le ombre. Le pareti sono bollenti, umide. I graffiti si ispessiscono in righe nere profonde e incisioni. Il corridoio si fa stretto e arcuato e freme, i graffiti gli conferiscono una forma stranamente esofagea. Quando arrivo alla porta del locale caldaie sfioro la maniglia con un fazzoletto: è ustionante.

La prendo a calci, provo ad aprire facendomi scudo con la giacca. Le caldaie rombano, gorgogliano, i graffiti spengono la luce e mi assalgono.

Sono scherzi innocenti! Solo scherzetti fra colleghi per combattere la noia.

Il responsabile del personale non sa come mi chiamo e non credo gli interessi molto. Continua a usare il telefono, mentre parliamo.

Mi dice che gli scherzi sono una specie di tradizione, che non è mai morto nessuno.

Ma non posso accedere al mio computer, non posso lavorare, obietto.

Sono sicuro che riuscirà a trovare una soluzione. Chiami un tecnico, chiami un collega senior. Forse se l’è semplicemente dimenticata, capita a tutti. Provi con la sua data di nascita. Provi col suo nome.

Quando finisce il colloquio mi sento svuotato e febbricitante. Alzandomi ho sbirciato il cellulare del capo del personale: è spento, ha lo schermo rotto in una ragnatela di frammenti che mi riflette in mille varianti della medesima espressione di puro orrore.

La caldaia intanto pulsa e innerva tutto il palazzo. Sento la sua voce discreta, appoggiando la testa al termosifone del bagno. Mi pulsa nelle tempie, mi schiude consapevolezze inquietanti che si mischiano allo scorrere dell’acqua calda per darmi un po’ di sollievo, qualche secondo almeno. La ragazza che piange è ancora là. Dice alla mamma che vuole scappare, sa che fra poco succederà qualcosa di epocale e vagamente spiacevole, ma lo dice usando un termine abbastanza romantico che mi fa inspiegabilmente sorridere: ‘a fine r’o munno.

Anche la ragazza per un istante smette di piangere, anche la caldaia.

Per un solo secondo sembra che l’universo intero si sia rassegnato a quello che sta per capitare.

Quando torno nei sotterranei so che non tornerò indietro. Stringo sotto il braccio il pacco che ho legato stretto nella scatola di cartone, i guanti di lattice, gli appunti di costruzione da seguire come un testo sacro. Stringo il pacco come se fosse il mio neonato artificiale e sento il suo ticchettio di orologio, il battito del suo cuore meccanico si accorda al mio respiro e mi svuota la vescica nei pantaloni. Mentre continuo la discesa, lascio orme di urina sul pavimento come una matassa intricata da seguire per tornare alla luce e rinascere.

Quando ho finito torno nei corridoi. È per poco, però, solo qualche minuto. Oggi l’ufficio è quasi vuoto. Alcune porte sono state chiuse, sprangate, i pochi colleghi presenti mi guardano con occhi sbarrati e iniettati di sangue. Saverio mi saluta da lontano. Muove la manina mentre sta cercando di circuire una consulente, le sta attorno come fumo.

Anche Luciana mi saluta dalla sua scrivania senza dire nulla. La sua mano è una parentesi rosa che si chiude prima che una qualunque frase possa cominciare.

Alla fine tocca a Joe starmi accanto. Joe che sorride e vivacchia e non sa, non può sapere, non può capire fino in fondo.

Password errata. Password errata.

Joe mi si siede accanto, mangia il solito panino. Prova col tuo nome, mi sussurra.

Io rallento il tremore che mi agita le mani e le gambe, lo guardo deglutire, non riesco a capire se abbia paura o stia solo cercando di confondermi. In ogni caso tutto questo non basterà a salvarlo. Non basterà a salvare nessuno.

In quel momento mi sento addosso le vite di tutti e ho voglia di scrollarmele di dosso come un cane, ho voglia di abbaiare e ringhiare e strapparmi la pelle. Non manca molto.

Guardo l’orologio che lampeggia, ticchetta, avanza. Poi digito “MAX” e premo invio.

Giugno 2024

© 2024 "Max" è una pubblicazione digitale della rivista letteraria Nido di Gazza.
Tutti i diritti correlati alla presente rivista sono riservati agli autori e collaboratori di Nido di Gazza.

Nido di Gazza | Rivista Letteraria - Nido di Gazza © Copyright 2023