Maria Grazia Patania
Minne randagie
ANNO 02 | NUMERO 20 | GIU 2024
Le prime minne che Robertino aveva visto in vita sua erano quelle di sua madre. Aveva succhiato avidamente il nutrimento che da esse sgorgava, irrobustendo il suo scheletro appena sbocciato e preparandolo ad affrontare le asperità della vita. Di quel periodo, in cui basta un lamento per trovarsi la calda minna in bocca, Robertino non ricorda nulla. È questa la prima e inoppugnabile manifestazione della crudeltà della vita. A otto anni, se ne rendeva già perfettamente conto.
Oltre a quelle materne, Robertino aveva familiarità con le minnuzze acerbe di sua cugina Rosa che era nata nel suo stesso giorno, rubandogli da sempre metà della popolarità che i compleanni garantiscono. A parte questo piccolo sgarbo, Rosa era una creatura amabile che pareva essere stata catapultata nella loro famiglia da una cicogna confusa. Fisicamente non avrebbero potuto essere più diversi, fatto salvo per il modo repentino in cui socchiudevano gli occhi quando percepivano un ceffone in arrivo. Un dettaglio di cui solo loro due si erano accorti.
Rossa di capelli e con la carnagione color latte, a ogni primavera la picciridda si riempiva di efelidi e lottava per non scottarsi mentre giocava coi suoi cugini niuri e sarbaggi.
Robertino – morbido e goffo nel suo corpo paffuto – le spalmava con cura la crema solare che nessun altro usava e temeva sempre che la cuginetta si sciogliesse per la cappa di quell’unguento spesso e colloso. Quando calava la sera, secondo un silenzioso richiamo, si precipitavano nel cortile della campagna e si spogliavano sul bizzolo dove venivano stricati con spugne e sapone di Marsiglia.
Si tenevano per mano, Rosa e Robertino, durante quel rito che anticipava la cena e il ritorno dai campi dei loro sgreuti padri. Quei momenti erano gli ultimi istanti di pace. Comu trasevano i masculi dentro casa, i fimmini canciaunu consistenza. Diventavano effimere.
Tuttavia, quando i padri arrivavano a casa con la luna di traverso, non serviva a niente cucinare manicaretti, riempire calici di vino, dire sì certo ma figurati ci penso io. Nel migliore dei casi qualcosa andava in frantumi. Nel peggiore qualcuno buscava legnate.
Il malocarattere degli uomini era un dato di fatto.
Ineluttabile come la messa la domenica e la sottomissione delle donne.
Inevitabile come le schiene curve dei braccianti neri che rendevano ricche le loro famiglie. Gente di cui loro ignoravano ogni cosa. Ombre e sagome che si muovevano veloci fra le serre.
L’universo di Robertino e Rosa aveva regole ferree. Tutto sembrava svolgersi secondo traiettorie precise come i solchi scavati nel terreno prima della semina.
Un pomeriggio di fine luglio, Robertino moriva di noia. Si era rifugiato nel grande salone vuoto e immacolato, sdraiandosi sul pavimento in cerca di refrigerio. Intorno alla casa, si sentiva solo il frinire pettegolo delle cicale. Sembravano spariti tutti, gatti e cani inclusi.
Verso le sei, si era azzardato a sfidare il caldo estivo per spingersi fino al mare. Stava già per desistere, quando vide sua zia camminare a passo svelto in direzione della spiaggia. L’aveva chiamata, ma lei non l’aveva sentito. Sembrava distratta.
Giunta al limitare della battigia, Maria si era spogliata e col suo costume rosso si era tuffata. Robertino lasciò i vestiti sulla sabbia, non immaginando di ritrovarsi davanti quel seno nudo e perfetto a un palmo dal naso.
Maria si era slacciata il pezzo di sopra e nuotava con lentezza nell’acqua bassa, la pancia a sfiorare il fondale dunoso.
L’aveva osservata: le gambe ondeggiavano richiamando la flessuosità della coda di una sirena.
Robertino aveva avvertito una specie di fitta al basso ventre e il cervello si era popolato di immagini confuse.
Scorgendolo, la zia si spaventò. Non l’aveva riconosciuto subito e istintivamente si era portata le braccia al petto.
Rimase immersa fino all’ombelico e i capezzoli turgidi si ricoprivano di piccole gocce salate che lui avrebbe voluto succhiare.
“Robertino, mi facisti scantari! Ma che sei pazzo? Vieni qui, monello” gli disse andandogli incontro sorridendo.
Un attimo dopo, lo stringeva a sé.
Fu questione di un lampo, un nonnulla, un istante in cui riuscì ad afferrare il battito che teneva in vita il suo angolo di dolcezza.
Quella notte Robertino dormì sonni agitati e poi si ammalò. Tutto cominciò con una strana febbre che sembrava arderlo interiormente e lo lasciava boccheggiante sul letto madido di sudore.
A prendersi cura di lui fu Maria, che lo fece traslocare nella sua piccola dependance, tanto sua madre non avrebbe potuto stargli dietro. Benché anche la zia fosse indaffarata, trovava sempre il modo di coccolarlo. Robertino pian piano si riprese ed era preoccupato all’idea di dover tornare a casa sua dopo quella parentesi senza ceffoni e piatti rotti.
Maria, una volta giunta la sera, si chiudeva la porta di casa alle spalle e invece di evaporare per rendersi invisibile acquistava consistenza.
Si toglieva i vestiti sporchi di fatica e gli raccontava aneddoti divertenti. “Non crescere mai, Robertì. Rimani buono come il pane per sempre” lo vezzeggiava Maria, spettinandogli i capelli.
Si sentiva strano mentre osservava quella nudità di donna giovane e ne sacralizzava le minne bianche e perfette. Non era come fare la doccia con Rosa o trovarsi davanti il corpo sfibrato di sua madre.
Rimaneva rigido come un salame mentre si lavavano circondati dal canto della donna che sembrava immune alla brutalità del luogo in cui vivevano. La assorbiva avidamente, registrava ogni dettaglio, ma poi gli tornavano in mente certi sermoni della domenica e si sentiva in colpa senza capirne il motivo. Mangiavano, e sul letto Robertino respirava l’odore di bucato pulito, mentre ascoltava fiabe strane che non sembravano uscite da nessun libro. Storie bizzarre di uomini e donne di nazioni lontane, venuti nella terra dei mandorli assolati per fare la fine degli schiavi.
Finito il malessere che lo aveva afflitto, rimase lì con la zia e imparò a conoscerla sempre più a fondo. La notte, ad esempio, aveva imparato che spesso lei spariva. La prima volta si spaventò non trovandola nel letto, ma poi il sonno lo vinse e l’indomani si convinse di averla solo sognata quell’assenza. A distanza di qualche giorno, si svegliò di soprassalto e si costrinse ad aspettarla. Ma unni sinni va sta fimmina di notte a notte? Non era più un bambino: doveva aspettarla sveglio e chiedere spiegazioni. Fece un paio di giri intorno alla casa, infreddolito e spaventato per i latrati dei cani lontani. Il minimo movimento degli alberi lo faceva trasalire. Altro che uomo, era solo un pupo di pezza come diceva suo padre. Afferrò una sedia dalla cucina e la piazzò davanti la camera da letto, intenzionato ad aspettare sveglio Maria che però lo trovò addormentato.
Una volta, invece, si mise a cercarla e la trovò che tornava seria, sporca e infreddolita dal retro della proprietà.
Lo sguardo mal si combinava con la zia danzante che cantava e raccontava storie di luoghi esotici.
La vide posare una valigetta e mettere a lavare panni sporchi di sangue. Quando lei registrò la sua presenza, sobbalzò e con le mani afferrò l’urlo che stava per scapparle dalla gola.
“Robertino, cill’ha finiri cu sta storia ca spunti all’improvviso. Bedda matri, mi facisti scantari. Cuccamuni” gli sussurrò dolcemente. Non riusciva a dormire, Robertino. Dov’era finita la rabbia per essersi ritrovato solo in casa? Dov’era finito lo scanto di non sapere dove fosse andata sua zia? Dove il risentimento di essere tagliato fuori dalle sue notti misteriose? Sintonizzato sul ritmo del respiro di Maria, finalmente scivolò in un sonno ruvido e tormentato.
La mattina dopo, non tirava aria di giochi e carezze. Lo sguardo di sua zia rimase serio fin quando non aprì bocca.
“Robertì, ascolta. Mi devi giurare ca ti stai muto e custodisci ‘sto segreto come la cosa più preziosa che hai. Robertì, ascolta: non è un gioco. Chissa è ‘na cosa seria. U capisci?.”
Nel formulare quelle domande lo scrutava per soppesarne l’affidabilità. Per tutta risposta, lui si limitò ad annuire con due colpi secchi.
“La notte minni vaiu dai niuri.”
Pausa.
“Ci pottu l’acqua frisca, pulita e li medico. Noi li trattiamo come bestie, ma sono umani.”
Il bambino si sentiva confuso. Non tanto per la rivelazione su quelle figure nere quanto per il coraggio di sua zia.
Una fimmina.
Una fimmina ca’ pareva pure mezza stordita, si metteva contro i masculi.
“Se vuoi che mi sto muto, mi devi portare con te” disse soltanto questo prima di andare a rifugiarsi nel suo posto segreto. Suo padre l’avrebbe spellato vivo, se avesse saputo che si faceva comandare da una femmina per disobbedirgli e fraternizzare coi niuri.
Una notte, dopo molte insistenze, si sedette coi braccianti e aiutò Maria a medicare ferite, massaggiare muscoli contratti, ascoltare la tristezza di chi ha lasciato la propria casa con decine di sogni nel cuore.
Mancava la mamma anche a loro, per quanto incredibile gli sembrasse.
“Ma non siete troppo grandi per queste cose?” chiese.
Dall’ombra emerse un uomo robusto e altissimo. Robertino ne scorgeva i denti e gli occhi al buio. Pian piano i contorni divennero più nitidi. Con la coda dell’occhio Robertino colse un guizzo nello sguardo di sua zia.
“Bimbo mio, non si diventa mai tanto grandi da smettere di sentire la mancanza della mamma. Macari a novant’anni ti mancherà” rise il nero alto e robusto.
A un tratto, i presenti consegnarono a Maria dei fogli, che lei mise in fretta dentro una borsa di tela.
“Ve li porto corretti domani. Intanto continuate a esercitarvi” e così si accomiatarono. Quelle pagine erano piene zeppe di esercizi, di frasi in italiano, di aggettivi da trasformare al femminile o al plurale.
“Vanno a scuola?” domandò Robertino incredulo.
“No. Ma iu c’ansignu l’italiano. Ignoranza fa rima con schiavitù e qua nessuno deve arristare somaro.”
Il tempo prese a scivolare. L’estate soffocava tutti con la medesima intensità, ma i braccianti soffrivano di più la crudeltà dei padroni.
Robertino continuava a vivere con la zia, felice che a nessuno importasse della sua assenza. Solo Rosa andava a trovarlo ogni giorno appena si liberava dai mestieri di casa che a lui erano risparmiati. Quanto avrebbe voluto condividere con lei quel segreto! Eppure non poteva. Maria glielo aveva proibito e in quell’occasione Robertino aveva imparato che nella vita alcune cose le dobbiamo coltivare da soli, al riparo dal resto del mondo che potrebbe distruggerle.
Nei campi serpeggiava il malcontento. Adesso il nero spilungone a cui mancava la mamma parlava di cose mai sentite prima. Si faceva chiamare Thomas, come Thomas Sankara, il capo di un paese lontano, che in soli quattro anni aveva guidato una rivoluzione ed era riuscito a cambiare il destino del suo paese trasformandolo nel Paese degli Uomini Integri.
Le notti nei campi si erano fatte irrequiete
Thomas aveva imparato a voler bene a Robertino e doveva imporsi con la forza di considerarlo un corpo estraneo al gruppo. Lo stesso valeva per Maria che gli aveva rubato il sonno con quel suo corpo morbido e accogliente, il ventre piatto e i fianchi larghi, le cosce sode, i seni perfetti.
Una notte in cui erano andati a letto presto, Robertino fu svegliato dal caldo afoso e, non trovando la zia, andò in giro per la casa. Sommessi rumori arrivavano dal ripostiglio. Al buio scorse il bianco profilo di Maria.
Nuda, trionfante, aperta come un melograno, la testa riversa e sul viso un’espressione mai vista.
Le minne bianche che lo avevano ipnotizzato al mare sott’acqua rilucevano di luna e sfrontatezza mentre si inarcava al ritmo di Thomas.
Era lui il direttore dell’orchestra silenziosa che muoveva sua zia, iddu c’ampastava, arriminava, contorceva, rilasciava Maria.
Iddu ca ci parrava in una lingua mai sentita.
Lei che rispondeva con una danza fin quando qualcosa la afferrò scuotendola tutta.
Inarcata la schiena, tese le gambe e arricciò i piedi con un sospiro. Robertino osservava quella scena incantato.
Non si era ancora ripreso dallo stupore di sua zia irrigidita da quello spasmo, che sgranò gli occhi vedendola fare una cosa inimmaginabile.
In un lampo, spostò l’amante possente e gli si mise sopra con uno sguardo di trionfo che sua madre avrebbe definito da vera buttana.
Di questo era certo: i fimmini non dovevano provare piacere per la vita in generale e per le cose che facevano con i masculi. Sennò erano buttane. Il godimento era privilegio esclusivo dei mariti.
Ma Maria no. Maria si pigliava tutto.
Si pigliava la vita, la notte, la tenerezza, l’amore, la ribellione e tutto il resto.
Si pigliava Thomas, squagliato sotto di lei in un’espressione inebetita.
Adorò sua zia come l’altalena spinta in alto verso il cielo, come l’acqua del mare che lambisce le ginocchia mentre ci si immerge per sfuggire all’afa.
Come il pane caldo con l’olio, il sale e l’origano sminuzzato.
Robertino si sentiva tutto sombussolato e tornò a letto col cuore che era una piuma e l’immagine di quei due avvinghiati come serpenti dentro una cesta.
Gli successe molte volte di osservare l’amore fra Maria e Thomas e fu solo per questo che comprese le frasi rancorose di suo padre.
“Uora i’mmazzamu comu li cani. Sta scimmia africana vinuta cà a futtirisi a me cugnata. Maria ha avuto troppa libertà.”
Robertino scivolò nell’afa per trovare Thomas in mezzo alle schiene piegate. Quello fu così felice di vederlo che non presentì la sventura in agguato.
“Ve ne dovete andare. Ora. Subito. Scappa con Maria. Mio padre vi vuole ammazzare.”
“Unni è Maria?” chiese soltanto.
“Preparati ché io vado a cercarla” gli rispose. Dopo di che la coppia sparì nel nulla.
Gli scagnozzi di suo padre giurarono di averli scannati come i porci.
Robertino però non volle crederci e si rifugiò nel ricordo delle notti di amore fra sua zia e Thomas.
Ricominciò la scuola, proseguì la violenza dentro le mura di casa e per i campi.
Poi, un giorno di primavera, mentre lui e Rosa tornavano da scuola, una donna nera chiese loro di seguirli alla fine del paese. La bambina era incerta, non si fidava. Ma Robertino la convinse ad andare.
Sudati e inquieti, alla fine della città, lì dove iniziavano le campagne, scorsero una coppia dietro un grande carrubo.
A quel punto corse Robertino.
Corse incontro a sua zia, dritta come un fuso accanto a Thomas che teneva una cosa in braccio.
Corse veloce mentre Rosa arrancava dentro le scarpine ruvide. Thomas li guardava con la figlia addormentata in braccio e poi si abbassò in ginocchio per osservare il bambino negli occhi.
“Miracle è anche un poco figlia tua. L’hai vista nascere dentro Maria, l’hai salvata dalla scanna di tuo padre e dovrai occupartene pure tu, come noi ci occuperemo di voi. Andiamocene via da questo posto.”
In quel momento, sua zia Maria scoprì le sue bellissime minne randagie per allattare la neonata mentre tutti e quattro si muovevano per scivolare dentro l’orizzonte.
Nessuno li avrebbe mai più rivisti.
Giugno 2024