Elsa Rizzo
Guernica
ANNO 02 | NUMERO 21 | LUG 2024
Di essere, è monumentale. Però si vede che Pablo era un compagno sensibile, anche se uno schifoso misogino. Questo lo dico perché di solito se pensiamo ad opere di grandi dimensioni, non artistiche eh, il rimando è sempre ai fasci che avevano bisogno di legittimarsi e allora daje con le bonifiche e con l’apposizione delle lettere D U X in cima alle colline, così, se qualcuno si fosse scordato chi comandava. Ma Mussolini aveva fatto anche di peggio, checché ne dicano i millantatori del “hafattoanchecosebuone”. Grazie per le bonifiche, mi verrebbe da dire. Ma mi fermo qui, perché la sola idea che si possa esautorare questa merda fascista dalle sue colpe mi fa rabbrividire.
Ma sto divagando, maledetta laurea in storia. In realtà non erano queste le prime divagazioni che mi avevano anestetizzata una volta trovatami di fronte al Guernica. La prima cosa che ho pensato è stata: cazzo, è orripilante e meraviglioso. Ma poi dico, anche quelli del Reína Sofia, io verrei e vi darei un abbraccio enorme, uno l’uno, tutti indistintamente, a chiunque abbia pensato a come apporlo perché è vero che il nome precede la sala e ti prepara, sai che starai per beccarti una storia nell’arte che ti devasterà, ma ecco non è come la Gioconda che già una volta girato l’angolo dell’ultimo corridoio tu sai, sai che quello sciame di mosche, i polsi allenati alzati in aria che reggono stick per i telefoni, possono indicare una sola opera d’arte. Col Guernica no. Sentivo nell’aria una certa febbre del sabato sera, certo io prima per rilassarmi un attimo mi ero ingollata alla mia borraccia un sorso di sangria reperita dalle canaglie dei miei compagni in ostello, ma davvero credetemi che là davanti non vi era nessuna rissa mediatica per accaparrarsi uno dei milioni di scatti che circolano inesausti in rete. Certo, c’era gente. Però c’era una compostezza e un tale rispetto della morte quasi come se il bombardamento di Guernica fosse avvenuto da poco. Come se le pareti grondassero ancora il sangue che le bombe fasciste avevano fatto scorrere. Se avessi chiuso gli occhi avrei potuto sentire ancora una sequenza di deflagrazioni. Degli spari seguiti da delle urla incomprensibili. E delle risate malvagie. Però, poi, sentivo anche l’indignazione montare dentro irrefrenabile. E allora me lo immaginai lì, Pablo, una foga incontenibile e un’unica, inderogabile richiesta: una tela immensa, la più grande possibile. Ci sarebbe stato bisogno di unire due stanze, di collegarle. Se la popolazione era morta sotto le bombe a Guernica a casa sua si sarebbe potuto abbattere qualche muro divisorio pur di ficcarci dentro questa tela infinita. Perché infinita era anche l’angoscia della responsabilità che si provava a sapere di dover creare qualcosa che potesse aiutare la propaganda del governo repubblicano che cercava in tutti i modi di resistere alla vile avanzata franchista. E l’angoscia di sapere di non avere tempo e allora accadde quello che accadde a Guernica e non ci fu tempo per pensare: Pablo sapeva cosa doveva dipingere. Voleva metterci del colore, tutti lo dissuasero dal farlo, perché solo il nero e il bianco sarebbero stati universalmente bruti e crudi. Che ci mangiassimo, scavando, l’interno delle guance, una volta visto come un’opera d’arte potesse farci sentire scomodi nelle nostre esistenze.
Penso a tutto questo quando mi trovo davanti al Guernica. Avevo anche chiuso gli occhi per un secondo. Il custode si era avvicinato per scuotermi, non si poteva stare appoggiate alle pareti. Mi scusai e per un attimo vacillai. Ero in contemplazione da circa mezz’ora e credevo di non averne avuto abbastanza. Sicuramente non ne avevo avuto abbastanza.
Faccio mente locale e sono lì, con gli altri, alla sfilza interminabile di riunioni che abbiamo avuto nell’ultimo mese. Questo mese in cui non ha mai smesso di fare caldo perché non riusciamo più a ricordarci quando mai abbia fatto freddo. Io di anni ne ho ventidue, mica tanti, però le montagne vicino casa mia non sono più bianche e al fiume non possiamo manco più bagnarci. Bastassero le lacrime che verso io, che versiamo noi del collettivo e quelle di chi, pur non unendosi direttamente alla lotta, soffre le nostre stesse ansie, forse avremmo potuto almeno riempire uno stagno, uno casuale, il più sfigato di tutti. Ma vorremmo sognare in grande e siamo grati, infinitamente, a chi ha preso parte ai Fridays, io stessa ho iniziato così, un venerdì in cui più che ritornare sulla Rivoluzione russa avrei voluto trasporla in questo secco, secchissimo duemilaventiquattro, ma qui bisogna osare.
A storia degli Stati uniti il mio professore insisteva su quanto complementari fossero le figure di Martin Luther King e di Malcom X. Era, nelle sue parole, l’estremismo del secondo a rendere più accettabili le proposte del primo. L’intransigenza di Malcom X lo rendeva impopolare agli occhi della docile borghesia bianca statunitense, un covo di razzisti irrecuperabili, mentre i modi di Martin Luther King lo rendevano un agnello docile, che pretendeva soltanto di non essere azzannato e spolpato dai lupi, non di aizzare gli altri agnelli a una rivolta che sovvertisse un ordine dato per naturale. Insomma, per trovare un baricentro e renderlo moralmente tollerabile, guai a dire condivisibile, bisognava che qualcuno, da questo centro, si allontanasse. Ed è qui che entriamo in scena noi.
Ho iniziato a militare più seriamente dentro il collettivo quando un giorno mia nonna annunciò che quell’anno per il mio compleanno non avrebbe preparato uno strudel. Le mele erano troppo piccole e ai suoi occhi avrebbero reso lo strudel non un vero strudel. So che può sembrare comico, se ci penso anche io lo ritengo tale, ma mia nonna, che qualcosa in termine di teatralità di serie b doveva averla appresa dalle telenovelas delle cinque del pomeriggio, lo disse con quelle lacrime agli occhi che non mi sentii di contraddirla. Tornai in camera e mi affacciai. Il sole aveva mangiato intere distese di coltivazioni. A vista d’occhio vedevo la poca acqua usata per innaffiare evaporare incessante. Mi sentivo attaccata su tutti i fronti da bombe invisibili ma non meno asfissianti, vittima di una guerra così invisibile ma così quotidiana esperienza collettiva dei militanti e di tutte che no, non potevo non fare qualcosa. Romanticamente, mi dico sempre, lo faccio per mia nonna. Perché riesca a capire che questo sarà solo il primo di una serie di compleanni senza strudel di mele.
Realisticamente lo faccio perché sento l’acqua alla gola di chi si sta già spostando da decenni da continenti dove la sabbia ha ormai levigato tutto, il deserto inghiottito intere terre. Lo faccio perché non c’è nulla di più importante che questo. Così, almeno, se mia nonna dovrà venirmi a trovare in carcere, l’idea è tanto improbabile quanto pericolosamente reale, potrò dirle che ho lottato per lei e per le mele. No, nonna, per me protestare non era una scelta scriteriata, drastica: militare così era l’unico alfabeto che conoscevo.
Quindi, adesso, ai vostri occhi spero di non sembrare un’estremista esaltata dal brivido della rottura dell’ordine, vorrei vedere quanto elettrizzati sareste voi a rischiare cinque anni di galera per avere appeso degli striscioni, ma una ragazza legittimamente preoccupata e attanagliata da una crisi che ci è ormai sfuggita di mano. Voi non ci credete, ma noi stiamo male cazzo. Malissimo. Vediamo incendi e piangiamo. Assistiamo, inermi, ad acquazzoni che vogliono vendicarsi cancellando ogni traccia di vita su uno specifico territorio. Corriamo a dare una mano, spalare il fango, e rendersi conto che no, questo non è maltempo. Ma così non sembrerebbero pensarla i tg. Cristo santo. La prossima volta che sento emergenza maltempo querelo l’ad della Rai. Ci sembra di vivere una realtà distopica, perché solo una realtà distopica può mandare in onda, a distanza di trenta secondi l’uno dall’altro, un servizio sulla siccità e i piani di razionamento e uno sulla prematura stagione estiva, perfetta per una tintarella non nociva, nature.
Io non lo sapevo più cosa avremmo dovuto fare. Io avrò anche studiato storia e va bene, non sono la figura più qualificata per parlare di quanto sta avvenendo, ma allora prendete i report dell’IPCC. Cazzo se non fosse che sono così fottutamente reali, dovremmo pensare che siano in un sequel degli Hunger games. Ma questi sono già i giochi della fame, quelli di chi vive scappando da una carestia che si estende implacabile a macchia d’olio. Di chi, come Yoanna da Lagos, mi risponde che la cosa che le piace di più del vivere in Italia è avere l’acqua corrente ventiquattrooresuventiquattro perché lei a Lagos un servizio del genere non ha mai neanche pensato fosse possibile. Mi chiedo per quanto tempo ancora le piacerà vivere in Italia.
Non ho più il telefono qui con me e non so cosa state facendo là fuori. Conoscendovi da brave compagne starete facendo un presidio di fronte la questura e io non posso non commuovermi. Se questi fogli vi verranno consegnati, metaforicamente si intende eh, mica ve li recapitano, forse potrete trovarli un po’ secchi. Sono state le mie lacrime. Ne ho versate solo due. Le ho centellinate perché di acqua ne abbiamo poca, no?
Gettare la vernice rossa sul Guernica mi ha squarciato muscoli che non avevo mai sentito respirare dentro di me. Il muscolo soleo. Scalo ma non sono brava a correre. E quei cinque metri che mi separavano da quell’opera che gridava distruzione da tutte le parti furono un tragitto interminabile nel quale mi chiesi se io avessi mai davvero avuto un’altra scelta. Se ci fosse stato concesso un modo di protestare che non comportasse doversela prendere anche con chi sta dalla nostra parte. Ma Pablo lo sa, lo sa che quella vernice in realtà andrà via. Ci perdonerà perché l’abbiamo provata ovunque. Chimici, fisici, pittori avevano tutti confermato che sì, assolutamente, sarebbe andata via senza lasciare alcuna macchia. Questo mi rincuorava, perché poi, che ingenua, credevo che ci sarebbe stata data la possibilità di spiegarci. La storia dell’umanità è distruzione brutale e noi fra un po’ saremo con l’acqua alla gola, quella che ormai manca dai nostri fiumi, curioso, no?, e con quella vernice rosso come il sangue delle vittime di Guernica volevamo spaventare chi non crede che questo sangue arriverà sulle nostre coste, sui nostri indumenti, nei nostri campi. Notizia: è già arrivato.
I tg hanno coniato un simpatico neologismo: “ecovandali”. Lo alternano al più classico “criminali”. Saltuariamente siamo anche una “organizzazione a delinquere” o, con gergo meno tecnico, delle “zecche comuniste”.
Lo so che ci sono moltissime forme per manifestare. Ma so che non ci avete ascoltato mai neanche quando abbiamo sfilato cantando per le nostre strade. Neanche quando ci siamo arrampicati sugli alberi sperando non venissero abbattuti. O seduti in autostrada per farvi spegnere i motori. Non è mai andata bene e anche lì ci avete manganellato quando eravamo inermi di fronte a voi, le braccia sollevate, gli occhi sfregiati, i capelli raccolti.
Non abbiamo mai voluto fare del male a nessun altro essere umano e ci dispiace, ci dispiace se a pagare è sempre chi sta peggio, mai chi ci governa, mai chi sta sopra. A loro, cazzo, non riusciamo ad arrivare mai. Ma Rosa Parks prima di me si è seduta in un posto che non le spettava. Franca Viola ha detto di no alla nostra cultura patriarcale. Mimmo Lucano ha cercato di scardinare il nostro subdolo sistema di accoglienza. Erano tutte, tutte azioni illegali. E se non le avessero fatte?
Oggi Andrea era con me per l’azione. È stato lui a riprendere il momento in cui, lanciando la vernice, ho gridato che il tempo è scaduto. Noi non lo sappiamo più come dirvi che non abbiamo tempo. Non lo so neanche io se ho fatto bene a prendermela con chi non poteva neanche pronunciarsi. Cosa credete? Che ci venga facile? Che non ci sconvolga quello che facciamo, pur non facendo male a nessuno? Noi stessi in assemblea parliamo, discutiamo, battagliamo. A vincere alla fine, però, è sempre la disperazione. La stessa del Guernica che io sento, adesso, non in questa stazione di polizia, ma in questi mesi, in quelli che verranno, nei bollini rossi già ad aprile, negli occhi dei miei coetanei. E allora credo che sì, credo che Pablo capirebbe che l’abbiamo fatto perché abbiamo bisogno che tutti ci vedano. Che oggi io sono stata Rosa Parks con la vernice lavabile. Domani inizieranno tutte le indagini e le lungaggini del caso. A me non importa perché qualcuno agli estremi deve pur starci quando questi estremi sono l’unico punto spaziale che potrà salvarci.
Ci chiedete, mi chiedete se mi spaventi il mio futuro. La preclusione lavorativa che una fedina penale sporca comporta. Certo che mi spaventa. Ma questa paura è niente se penso ai letti dei fiumi ormai ossidati, all’acqua infangata, alle tempeste di sabbia, alle spaventose perché reali rotte migratorie. Alle mele. Quelle di mia nonna, quelle del mio compleanno. Quelle della torta che avrei condiviso con le compagne.
Luglio 2024