Davide Berselli
Il segreto di zio
ANNO 02 | NUMERO 22 | AGO 2024
«Si chiamano scie chimiche. Te lo dico, è una congiura internazionale e siamo tutti in trappola.»
Non appena finisce di parlare, l’uomo succhia il vino da un cartone. Parte del liquido sbrodola agli angoli della bocca, un paio di gocce si incastrano tra i peli grigi di una barba sudicia e senza controllo. Si asciuga con il dorso della mano, poi punta l’indice verso il suo interlocutore.
«Facci caso, quando guardi il cielo: sono quelle righe bianche che non si cancellano mai.»
Accanto a lui sulla stessa panchina l’altro uomo, dal viso ben rasato, alza la testa all’insù, cercando di indovinare uno spicchio di celeste dove invece c’è solo il nero della copertura della banchina.
«E se non sono le tracce della combustione degli aeroplani, queste scie sarebbero…»
«Non sarebbero. Sono. Gas lanciato dai governi per renderci tutti docili.»
«Sarà. Buona giornata» dice l’altro; si alza, raccoglie le sue cose e si allontana.
L’ubriaco si mette in piedi anche lui e alza il volume della voce mentre il fischio di uno dei controllori taglia la banchina in due con una precisa lama sonora.
«Meglio stare in campana!» urla in aria.
Non vede arrivare la corsa trafelata di un giovane in direzione delle porte del treno in procinto di chiudersi, e sbatte allora contro una busta di plastica, facendola finire a terra. Il giovane sbraita «Attento!», raccoglie rapido la busta dalla quale è caduto un piccolo pane a forma di rosetta e salta con un balzo all’interno del treno. Attraverso il portellone ora chiuso gli giungono le grida ovattate dell’ubriaco, quasi il treno fosse sott’acqua. Lentamente la banchina scivola all’indietro. Il giovane alza il dito medio verso l’ubriaco. Lo vede afferrare la rosetta da terra, lanciarla contro il finestrino e mancarlo di almeno un metro.
Il ragazzo percorre ora il corridoio stretto tirandosi dietro la borsa da viaggio e la busta di plastica, dondolando come dondola il treno, che fila in un fruscio sui binari e scatta a destra e sinistra sugli scambi. Il giovane ficca la testa dentro ogni cabina, quando trova la porta aperta, e quando invece è chiusa appoggia la fronte al vetro e scruta all’interno. Fa così per cinque cabine. Tre donne africane che ridono e parlano forte. No. Un uomo intrappolato in un completo gessato. No. Due arabi sdraiati a dormire, i piedi senza le scarpe. No. No. E infine, dopo aver percorso oramai l’intera carrozza, si decide. Apre la porta in uno scatto.
«Salve» senza un sorriso alla signora seduta accanto al finestrino che di rimando sorride; posa la rivista; dice «Ciao».
Un ciao che è lo stappo di una bottiglia di parole, e la schiuma che è la voce petulante della signora investe ora il ragazzo mentre sistema le sue cose sui ripiani in ferro. «Dove va lei … Speriamo di recuperare il ritardo … Si muore dal caldo qui dentro.»
Non una sola voce di risposta dal ragazzo, solo un ritmico «Ah-ah» a chiudere la curva di ogni domanda. Poi, per rimettere il tappo alla bottiglia della voce, il ragazzo tira fuori dalla tasca dei pantaloni un cellulare. Ci giochicchia. Attacca una conversazione con qualcuno che chiama “Mamma”.
«Sì, l’ho preso. Un chilo. Perché… perché avevo già la valigia. Ok. Ah-am. Uh-um. Vabbè. Ciao.»
E poi guarda fuori e fissa un gregge di pecore appoggiato sul verde della campagna romana, e pensa.
Il ragazzo pensa al pane sopra la sua testa e rivive la scena di due giorni prima.
«Prima di partire da zio ricordati di comprare le rosette» dice la madre in piedi in cucina, scolando la pasta nel lavandino.
«Che palle, già ho la borsa pesante» ribatte il ragazzo, seduto al tavolo.
«Massimo non dire cretinate. È il minimo che tu possa fare, visto che ti ospita. Che ti costa?»
«Ppfff» sbuffa il ragazzo con la bocca mezza piena, e sbatte mezzo grissino contro il bicchiere. «Ma che cambia, non se lo può prendere a Monaco il pane? Ce ne avranno di tutti i tipi» dice in un lamento, mentre le tendine di plastica alla finestra si gonfiano del vento che entra dal cortile.
«Ah, Massimo, possibile che non ti possa mai chiedere un piacere? Sei uguale a tuo padre, tutto vi sembra dovuto e non date mai niente in cambio.»
A sentire la parola padre Massimo fa una smorfia.
«Vabbè, se mi ricordo lo prendo.»
«Se mi RICORDOOO?» la madre ora urla e sbatte la pentola vuota sui fornelli. «Tuo zio avrà sì e no ancora sei mesi, vuole mangiare un’ultima volta il pane che gli ricorda casa e tu ti devi anche sforza-…»
L’ultima parola si strozza nell’aria e rimane lassù, più alta delle altre, e liquida, impastata di rabbia e lacrime. Massimo aspetta che la madre sia uscita di furia dalla cucina per sputare in basso, assieme a due briciole di grissino, un «Che palle».
La campagna scorre fluida come un documentario, i singoli fotogrammi di alberi e animali al pascolo e pali dell’elettricità a formare un tutt’uno. Il sole ricopre la campagna di uno strato brillante. Stasera mi perdo il compleanno di Luca, pensa Massimo tenendo gli occhi fissi su un trattore fermo in mezzo a un campo. Faranno sempre le solite cose, su e giù per il Lungotevere in motorino, ma sempre meglio che stare in treno per una vita. Chi me l’ha fatto fare, conclude Massimo, e il trattore riparte sputando uno sbuffo denso e grigio dal muso davanti. Lo sguardo di Massimo si sposta, accarezza la linea tirata dei campi e il profilo squadrato delle baracche isolate degli attrezzi e poi torna dentro, tra il blu e il grigio all’interno del treno. Al sorriso timido della signora Massimo accenna una smorfia, tutta piegata da un lato, poi chiude gli occhi e appoggia la testa al finestrino. Pare farlo apposta, ma neanche tre minuti e scivola in un sonno a singhiozzo.
…sono piccolo e sono io, tocco l’umido dell’erba e so che sono le mie mani, solo meno grandi, le stesse sensazioni attraverso i polpastrelli ma racchiuse in uno spazio più piccolo, e gli occhi, sono i miei perché vedo le cose di fronte a me, e se giro la testa gira anche quello che vedo, ma quello che vedo è più in basso e tutto sembra enorme. E il corpo di mio zio è più grande di me, e allora seduto su un prato di Villa Borghese capisco che sì, sono io, ma l’io bambino che sono stato, e quello di adesso non è un sogno ma un ricordo, e lo so perché è tutto legato, senza salti o cambi di scena repentini. E mio zio sta appoggiando una cosa dopo l’altra sul lenzuolo disteso sul prato, dalla busta tira fuori una bottiglia di vino e un sacchetto di olive e una lattina di coca e un pacchettino di carta bianca che srotola sul lenzuolo; e zio che ha lo sguardo attento a fare ogni gesto per bene apre il viso abbronzato in un «Ahh!» soddisfatto quando toglie la pellicola di plastica trasparente dalle fette rosa di mortadella.
«Ora ti insegno un segreto, Massimì» dice zio piano piano, «è come un gioco ma è anche il nostro segreto.»
«Che cos’è zio, che cos’è?», chiedo con la curiosità sincera dei bambini.
Ma uno strappo di ferro e un «Buongiornobiglietti» all’improvviso alza Massimo dal prato e lo fa ridiventare grande, le mani grandi a stropicciarsi gli occhi, gli occhi stanchi ad aprirsi a fatica e a scrutare il controllore in piedi, il cappello a trequarti e un’espressione stanca, mentre attende con una mano in aria i documenti di viaggio. Massimo galleggia ancora nell’umido del ricordo mentre si riprende il biglietto che il controllore ha bucato in un «Buonagiornata» strascicato via. Guarda fuori, e prova a decifrare sui terreni che ora si alzano in colline puntate al cielo un sentiero verde che lo riconduca a quel ricordo, attraverso orti e campi di granturco direttamente fino a quella domenica lontana in città. Per un attimo fiuta un cammino e pensa di aver riannodato il filo e che alla fine di quel filo possa ritrovare ancora per qualche istante il suo io bambino e suo zio, ma niente. Lo sguardo scappa sopra un mucchietto di case, un villaggio di terracotta e tetti rossi incuneato nel turchino di un cielo toscano.
«Vuole favorire?» dice la signora a Massimo.
Sono ormai quattro ore che è in viaggio ma non ha fame, solo voglia di fumare una sigaretta se ne avesse una, e l’odore della frittata di cipolle sprigionato dalla vaschetta di plastica gli serra la bocca dello stomaco.
«No grazie» dice Massimo soffocando un singulto di fastidio al puzzo di cibo che soffoca l’aria.
Con la bocca aperta la signora continua: «Di sicuro non muori di fame, con tutto quel pane che ti porti», e fa un cenno con il mento verso l’alto a indicare la busta. E poi eccolo, d’improvviso, il segreto di zio torna a galla risalendo dal fondale del tempo, così intenso da spazzare via l’acre delle cipolle come una pioggia d’estate.
Zio prende la rosetta, la gira e poi la taglia in due di lato. Appoggia tre fette di mortadella sulla parte bassa, le piega per farle stare all’interno del cerchio del pane. Poi fa combaciare la parte alta sull’altra e preme, come a incollarle di nuovo, come a rimpastarle in un unico pezzo.
«Avvicinati, Massimì.»
Gli prende la mano.
«Ora ruota il bottone della rosetta, finché non si stacca.»
Il bottone della rosetta, croccante e scuro, cade sul lenzuolo.
«E ora premi forte qui, dove c’era il bottone.»
C’è solo uno strato bianco e sottile di mollica, l’indice piccolo di Massimo affonda facilmente nel cavo della rosetta e apre un buchetto. Zio toglie il dito del bambino dal pane, gli avvicina il pane al naso, le narici al buco nel pane.
«Tira su, amore di zio, tira forte.»
E Massimo chiude gli occhi, e ride, e il mondo è dolce come la carne del maiale e saporito come il pistacchio e profumato, profumato come un pane appena cotto.
Forse non è stata una cattiva idea: in fondo che mi cambia, sempre le solite cose, le stesse facce. Massimo prova a dare un nome a quella sensazione che lo coglie a casa, seduto a tavola a mangiare il più in fretta possibile per poi scappare in camera. Noia. Che noia. Ripete la parola noia dentro la sua testa come una filastrocca fino a che la parola perde il suo senso. Cerca di riacciuffare allora il ricordo di zio e del suo segreto, ma è già scappato via. Il treno è fermo, Verona, legge Massimo sul cartellone blu. La ragazza entra nel compartimento dopo che il treno ha già lasciato la stazione. Sistema le sue cose spostando le altre, creando spazio per la custodia della chitarra e uno zaino logoro. La signora è infastidita da quel rimestare, Massimo osserva invece i suoi pantaloni larghi e colorati e lancia un paio di occhiate furtive ai seni piccoli, liberi dietro la canottiera di cotone. La ragazza ha i capelli cortissimi sulla nuca e una ciocca colorata di rosso brillante appoggiata sulla faccia. Un piercing le taglia un sopracciglio, un altro circonda una narice. Gli occhi sono chiari, si muovono veloci e si posano su Massimo. Parla in inglese, con un accento duro e aspirato. All’inizio Massimo non capisce, quando poi la ragazza fa il gesto con il pollice a grattare una cosa invisibile dice «Aah!» e le passa un accendino. E all’altro gesto che la ragazza lascia nell’aria con la testa, senza dire una parola, Massimo la segue rapito. Si sistemano nello spazio tra una carrozza e l’altra, mezzo metro cubo di aria schiaffeggiata dal chiasso metallico e riempita in un secondo dal fumo di due sigarette. Urlano, più che parlare; Massimo capisce metà delle cose che lei dice, ma sorride e annuisce a ogni frase buttata. Si passano a turno una bottiglietta di plastica che la ragazza ha tirato fuori dalla tasca dei pantaloni. All’inizio l’alcool brucia, si impasta in bocca con il fumo ma poi scende giù per la gola e scalda la pancia.
Fuori i filari dei meli e delle viti seguono la corsa dell’Adige e si lanciano verso le montagne alte all’orizzonte. La ragazza si chiama Inke. È tedesca e torna a Monaco dopo due settimane di viaggio. A casa di amici, a Bologna e poi in giro per la Toscana. Pensa di ripartire presto per tutta l’estate. Vietnam, crede. Massimo, invece, va a trovare suo zio per il fine settimana. No, è italiano, ma ha vissuto e lavorato in Germania per vent’anni. Niente, studia. Magari. È un viaggio lunghissimo, sembra non finire più, e poi quella signora, parla tutto il tempo. E una puzza, quella frittata. Frittata, quella con le uova.
«E tutto quel pane, se lo mangia lei? In quella busta di plastica come una barbona?» chiede Inke, e butta giù una sorsata con gli occhi che ridono.
«Ah» dice appena Massimo, prima di una lunga tirata alla sigaretta.
Tre o quattro volte passa qualcuno attraverso lo spazio che occupano, spinge il bottone per aprire la porta della carrozza successiva e li lascia là dove stanno. Sono solo questi passaggi improvvisi a scandire il tempo della loro conversazione, per tutto il resto del viaggio, lo spazio e i minuti si dilatano in un luogo soffice, una dimensione i cui confini sono spinti in là dall’alcool e dagli sguardi che man mano si fanno più lunghi.
Ecco, il mondo è ora una possibilità e non una condanna, pensa Massimo. Il lago di Costanza e quel campeggio pieno di australiani. Gli incontri in un aeroporto internazione nel sudest asiatico. L’elenco dei mestieri che si possono imparare nel corso di una stagione. Inke dice, e Massimo misura la vertigine tra tutte quelle parole straniere, i nomi di città e persone, e le cose sempre uguali a sé stesse che invece conosce a memoria. Quel senso di oppressione e fastidio che non lo abbandona mai si squarcia in un lampo, e poi Massimo pensa al padre che non vede da una vita, al risentimento di mamma anche solo a pronunciare il suo nome, e capisce che invece no, ha fatto bene. Il treno continua a correre mentre fuori la campagna scompare. I primi capannoni industriali, le tangenziali a quattro corsie. Inke infine dice, dopo aver controllato fuori dai finestrini: «Siamo arrivati.»
Tornano al loro compartimento, la signora è in piedi, si sta annodando un foulard al collo. Inke tira giù in fretta la chitarra e lo zaino, Massimo la borsa senza forma. Escono assieme, la ragazza davanti a tirare con la mano Massimo.
«Ragazzo! Ti stai dimenticando il pane» esclama la signora, le mani incastrate nel nodo del foulard.
Massimo guarda la ragazza, un ghigno di risposta al punto interrogativo delle sue sopracciglia. Escono, e nemmeno si volta mentre dice: «E mica è mio».
C’è un signore appoggiato a un pilone di cemento, alla fine del binario. Non ha un’età ben definita, potrebbe avere cinquanta o settant’anni, i suoi capelli sono folti e castani ma la faccia sembra una cava di pietra lasciata in disuso. Guarda verso la folla che arriva a gruppetti. Si tasta la giacca, all’altezza del cuore, e controlla ancora una volta la consistenza morbida e gonfia del pacchetto infilato nella tasca interna. Non è stato facile, ma in un negozio del centro di specialità alimentari è riuscito a trovare la mortadella. Prova un languore dentro la pancia, dove appoggia la mano: per fortuna oggi il dolore è stato sopportabile. È invece da tanto, pensa, che non aveva questo appetito.
Agosto 2024