Patrizia D’Errico

Omaggio ad Angelo Gilardino

ANNO 02 | NUMERO 22 | AGO 2024

“Ti ho iscritta alla masterclass con Gilardino, eseguirai il pezzo contemporaneo, quello di Leo Brouwer.”

“Elogio della danza? Maestro, è troppo difficile, e poi davanti a Gilardino mi tremerebbero le mani.”

“E’ un’occasione unica, non te la puoi perdere. Ci vediamo martedì a lezione.”

Angelo Gilardino: una leggenda vivente. Io: un’aspirante chitarrista reduce da tre mesi di fermo per tendinite. Non ci vado, non mi può costringere.

Comunque. Quel pezzo lo dovrò eseguire all’esame, lo devo studiare. Prima lo ripasso mentalmente, visualizzarlo forse mi aiuta.

L’arpeggio iniziale lo immagino come l’espressione attonita di un uomo davanti a qualcosa d’inesplicabile. I bassi ribattuti sono i suoi passi incerti, ha deciso di esplorare il luogo misterioso, si addentra, cautamente. L’arpeggio si ripete ma con timbri diversi: grave e scuro, acuto e stridulo, è un dialogo, gli abitanti di questo mondo sonoro ideato da Brouwer, ora, sono due.

I frammenti di scale descrivono il loro procedere: repentine accelerazioni poi si nascondono nell’arpeggio iniziale, avanzano ancora, e ad ogni metro guadagnato le voci si ingrossano, non sono più due, è un manipolo di esuli in avanscoperta ora, si muovono compatti nell’atmosfera ipnotica di un mondo animato da voci enigmatiche. Esplodono all’improvviso le possenti percussioni sul legno profondo e inaspettatamente vivo, zampillano i guizzi repentini del tapping, degli armonici, sembrano bambini o uccellini o qualcosa di trasparente e fragile ma senza corpo, solo voci voci voci. 

Devo suonarlo: ora. È un mondo ostile che nasce dalle mie dita catapultandomi brutalmente nelle visioni spaventose del suo autore. Basterebbe che staccassi le dita dalla chitarra per far cessare l’allucinazione tridimensionale di cui sono vittima e artefice, ma una pietà inspiegabile per quelle voci m’impedisce di abbandonarle prima di suonare per loro l’ultima successione frenetica di accordi, una danza tribale, il canto di inizio di un nuovo mondo. 

Comunque, da Gilardino non ci vado. 

“Ricorda, anzi scrivitelo che è meglio, lunedì 18 dicembre alle ore 9.00 in accademia. Mettiti a studiare. Se non verrai, lunedì non sarai più ammessa a scuola, mi dispiace, ma…”

“Va bene, ho capito”.  Ti odio, maestro. Vaffanculo, maestro.  Studiare? A che scopo? Non sarò mai in grado d’interpretare quel brano.

Bello è bello. Come fa quella successione di accordi… semicrome pam pam pam crome raddoppio nulla ritmico poi ostinato nulla ritmico poi ostinato cresce cresce il basso sovrasta tutto pollice sulla cassa legature veloce non respiro è una corsa folle no una danza elegante non vedo corpi umani è solo luce potente ecco si espande e mi risucchia in un vortice da cui non voglio uscire mai più. 

Voglio vivere per sempre nella geometria raffinata di questo mondo musicale di diamante. Parole. Parole. E questa musica che mi abita la carne, ma le mie mani inesperte non la sanno generare.  

Fa un freddo cane. La sala è strapiena e io sono l’unica ragazza. Ci sono proprio tutti. Professori e allievi del Conservatorio locale, ma credo di tutta la Campania. Masterclass con Angelo Gilardino: è come se Maradona venisse al campetto della parrocchia del paese a dire due parole su come si gioca a calcio. 

Eccolo. Mi viene da piangere solo a guardarlo. È un gigante anche da seduto. Mi scusi maestro se mi sono permessa di venire qui, a suonare davanti a lei, mi hanno costretta, lo so che non sono degna. 

E guarda che chitarre: artigianali, lucenti e costosissime. La mia, in confronto, sembra uscita come regalo dall’uovo di Pasqua. 

Si sono alternati fino ad ora cinque giovani allievi, cinque mostri virtuosi. Lui però non gli fa troppi complimenti. Figurati a me. Forse mi vomiterà sulla chitarra giocattolo. Basta. Me ne vado. 

Questa sala d’aspetto dei pullman è mostruosamente fredda, e che cavolo, riscaldatela no. 

Quella ragazza mi guarda, cioè guarda la custodia della chitarra, quasi quasi glielo chiedo:”Mai visto una ragazza con la chitarra?”

“Suoni?”

“Sì, studio all’accademia Kandinsky, conosci?”

“Sì, la frequentava mia sorella, si è diplomata al conservatorio da un paio d’anni. Tu sei venuta a lezione?”

“Più o meno.” Mi guarda. Non molla. E va beh, ti spiattello la mia stupida storia, tanto non ti rivedrò mai più, perché non verrò mai più qui, mi cacceranno dall’accademia, e chi se ne frega. 

 “C’è un concertista di fama mondiale oggi in accademia, avrei dovuto partecipare a una masterclass con lui, ma non me la sento, ho visto il livello degli altri, al confronto io faccio ridere”.

 Mi guarda. Ancora. Forse è il mio angelo custode. Ma che ne so, ma che giornata del cavolo.

“Non te ne andare, non te la perdere quest’occasione, sei brava, si vede che sei brava?”

“E da cosa lo vedi?”

“Perché ci tieni a questa cosa, hai le lacrime agli occhi, e poi hai un modo di tenere la custodia della chitarra così affettuoso, sembra che la vuoi proteggere.”

“Io non ce la faccio…”

“Ce la fai. Se quell’uomo è veramente un grande maestro troverà il modo per aiutarti, per metterti a tuo agio. Non te ne andare.”

Intanto se ne va lei. Il suo pullman è arrivato, Continua a voltarsi e a salutarmi agitando la mano. Ma chi è questa qui? 

È arrivato anche il mio pullman, finalmente, ho le mani congelate.

“Ma dove sei andata? Riscaldati, scale e legature, la prossima sei tu”.

Ma come sono arrivata qui? Non dovevo salire sul pullman e tornare a casa? Adesso ho anche le mani congelate. Perfetto. Tocca a me.

“Buongiorno, maestro”.

“Buongiorno. Che bella chitarra: posso? Ha un suono molto potente quali corde usa?”

“Le D’addario”, biascico. È matto, a nessuno ha preso la chitarra, a nessuno ha detto nulla del genere. Nelle sue mani la mia chitarra ha una dignità enorme.

Guarda il mio programma d’esame, appena legge Leo Browuer mi fa: “Suoniamo questo?” Come se lì dentro ci fossimo solo io e lui, come se tutto quello che io non ho potesse mettercelo lui, che ha tanto e gli avanza, un mondo di bellezza e levigata perfezione di cui io non faccio parte.

Mi abbandono nel suo sguardo dolcissimo, suono le prime note, ancora incerte e rigide, lui posa una mano sulle corde per spegnere il suono, capisco che vuole spiegarmi qualcosa.  Mi fa esempi di quadri, mi fornisce immagini, siamo soli lì dentro, il tempo si è rattrappito in un angolo e ascolta anche lui, assorto, la voce del maestro. Riattacco, con una convinzione nuova, mi sento libera, seguo le mie visioni, il cuore a mille che forse tra poco esploderà ma non importa, conta solo essere qui, con quest’uomo che mi ascolta a occhi chiusi e io suono solo per lui.

Quando l’ultimo accordo rasgueado si spegne, apre gli occhi e mi dice. “Molto bene. Ricordi: nella sua vita privata può essere timida e riservata, ma quando suona su di un palco, deve dare tutto quello che ha, la devono portare via in barella, suoni sempre come un leone all’attacco. Le manderò qui in accademia la copia di questo brano con la mia diteggiatura”.

“Grazie, maestro”. Mi alzo, sfinita, forse mi porteranno via in barella. Tutti mi guardano e si stanno sicuramente chiedendo perché a me ha riservato un trattamento che a nessuno dei mostri che mi hanno preceduta è stato concesso. Il maestro è rimasto indifferente davanti ai virtuosismi più impensabili, alle interpretazioni più perfette e disinvolte. Perché?

Oggi sono andata in accademia e ho trovato la copia dello spartito di Leo Browuer autografata e diteggiata dal maestro Gilardino. 

“Forse si è innamorato di te” commenta il mio maestro, e ride. 

Capisco, all’improvviso, che in quella sala di perfetti l’unica imperfetta ero io, l’unica allieva in un piccolo universo di maestri. E il più grande di loro, mi ha mostrato la strada del cuore, come unica destinazione possibile per non smarrirmi nella ricerca di una vuota perfezione. 



P.S.

Il maestro Angelo Gilardino è morto il 14 gennaio del 2022. Questa manciata di parole per onorare la sua memoria e il privilegio immenso di averlo incontrato.

Patrizia D’Errico

Agosto 2024

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