Nora Babudri

Nel cielo volano le galline

ANNO 02 | NUMERO 22 | AGO 2024

Alla mattina, quando Francesco portò il becchime alle galline, vide un gatto nero con il becco giallo razzolare nel pollaio. Alla sera il gatto era sul posatoio e faceva le fusa accanto a Cocca Agnese. Francesco si preoccupò. Va a finire come lo scorso anno, pensò, quando lo avevano imbottito di medicine perché vedeva capre con la coda da diavolo. Il giorno dopo andò dal medico. Il dottore lo ascoltò, gli disse che stava troppo solo, che doveva vedere gente, distrarsi. Gli consigliò di fare un viaggetto, di visitare una città, togliersi dalla solita routine.

Francesco si rivolse all’agenzia turistica. L’impiegato lo convinse a passare un giorno a Milano. Ci volevano circa due ore con la Freccia Rossa. Gli disse che avrebbe provato il brivido della velocità coniugato con il comfort delle poltrone ergonomiche presenti anche nella classe standard. Francesco prenotò per il sabato successivo un biglietto andata/ritorno che gli costò un sacco di soldi anche se era in offerta speciale.

Sabato mattina si alzò per tempo. Diede da mangiare alle galline e fece quattro chiacchiere con Cocca Agnese che era la sua preferita. Si rallegrò che il gatto con il becco non fosse comparso. Non andava tanto male, pensò, e forse il viaggio a Milano gli avrebbe sistemato la testa. Ritornato in casa preparò due panini al formaggio e prosciutto crudo. Li sistemò nello zainetto insieme a una borraccia di acqua, indossò la giacca impermeabile e si avviò alla fermata degli autobus extraurbani. La corriera arrivò con un ritardo di quasi mezz’ora causa incidente sulla statale. Alla stazione Francesco si precipitò al binario, salì sulla Freccia, si sistemò nella carrozza 7, posto 1A, accanto al finestrino. Il treno si infilò nella galleria dalla quale uscì dopo circa quaranta minuti per fermarsi nei sotterranei di Bologna AV. Dopo una breve sosta continuò la corsa nella pianura nebbiosa, tra campi scuri e alberi spogli. A Francesco era venuta la nausea; colpa della velocità, pensò, mica normale viaggiare a quasi trecento all’ora. Tirò la tendina e si appisolò. Arrivò puntuale a Milano Centrale, raccattò lo zainetto e scese. La stazione era piena di gente e di cani al guinzaglio. C’era la pubblicità di una mostra canina, con un barboncino nano su un cuscino rosa.

“Povera bestia – borbottò lui – neanche fosse un soprammobile”.

Entrò in un bar e diede un’occhiata ai prezzi. Le brioche costavano quasi il doppio di quelle che vendevano al paese. Buttò giù un caffè, storse la bocca. Una ciofeca, pensò, e si diresse verso l’uscita. Evitò scale mobili e ascensori che gli mettevano paura. Non prese i mezzi pubblici che potevano fargli tornare il mal d’auto. Attraversò la piazza e si mise a camminare lungo uno stradone. Il rumore delle macchine lo frastornava; perse l’equilibrio, finì sulla pista riservata ai ciclisti che lo evitarono per miracolo. Tornò sul marciapiede. Tra case e grattacieli intravide una macchia di verde. Si avviò in quella direzione. Arrivò a un giardino pubblico. Cani al guinzaglio che pisciavano sugli alberi spogli, bambini che correvano, mamme che chiacchieravano, piccioni che razzolavano tra i piedi della gente seduta sulle panchine. Una signora leggeva accanto alla fontana. Portava un cappello con una lunga piuma. Francesco si avvicinò.

“Posso?” le chiese.

La signora sollevò lo sguardo dal libro. Le rughe del volto erano coperte dal cerone bianco, le sopracciglia erano dipinte di nero. Sembrava una bambola giapponese.

“Ci sono panchine libere”, disse.

“Mi piacerebbe sedermi qui, permette?”

“No”, rispose lei.

Francesco si schiarì la voce.

“Posso farle una domanda?”

La signora chiuse il libro, allungò il collo. La piuma svettò verso il cielo grigio.

“Dica”.

“Di che uccello è quella piuma?”

“Fagiano”.

Francesco sorrise.

“È molto bella”.

“Grazie”, disse lei e riprese la lettura.

Lui tirò fuori dal portafoglio una fotografia formato tessera.

“Posso mostrarle Cocca Agnese?”

La signora si alzò.

“Arrivederci”, disse e si diresse verso il cancello. Il cappello piumato cadde. Lui si precipitò a raccoglierlo. Era stupenda quella piuma, pensò, e porse il copricapo alla signora. Lei lo ficcò in testa. 

“Grazie”, sibilò. 

“Di nulla. Di nuovo complimenti per la piuma!”

Francesco mise la foto della gallina nel portafoglio. Si sedette su un tronco a guardare i ragazzetti che correvano attorno allo stagno. Uno perse l’equilibrio, cadde con la faccia nel fango. Gli altri si affollarono attorno. Ridevano. Lui si sollevò, pulì gli occhiali, li rimise sul naso e si sedette accanto a Francesco. Alzò lo sguardo verso il cielo e rimase impalato con il mento all’insù finché Francesco non gli mise una mano sulla spalla.

“Come ti chiami?” chiese.

“Alessandro”.

“Piacere, sono Francesco. Che stai guardando?” 

“Gli uccelli”.

“Non vedo uccelli”.

“Io sì”.

“Dove?”

Il bambino indicò le nuvolette bianche.

“Quelle sono nuvole”, disse Francesco.

“Tu hai bisogno di occhiali. Tieni, ti presto i miei”. 

“Sono troppo piccoli”, disse lui.

“Non appoggiarli al naso”.

Francesco li allontanò dagli occhi. Sorrise.

“Ora li vedo. Sono galline”.

“Le galline non volano così in alto”, disse Alessandro.

“E allora che sono?”

“Aironi. Come quelli che ho visto ieri alla televisione”.

Francesco continuò a scrutare le nuvole.

“No, Alessandro, sono galline livornesi. Assomigliano a Cocca Agnese”, disse e tirò fuori la fotografia.

“Che bella!” gridò il ragazzetto.

Francesco gli restituì gli occhiali.

Lui li inforcò. Alzò lo sguardo.

“Hai ragione – disse – sono galline, non ne avevo mai viste nel cielo”.

“Che cosa vedi nel cielo?”

“La sera della Vigilia ho visto la slitta di Babbo Natale. Un’altra volta c’era un orso con i cuccioli. L’altro giorno, dopo la scuola, mentre aspettavo il bus, ho visto una volpe che usciva dalla tana. Mamma però non l’ha vista. Ha sorriso e ha detto che sono pazzerello”.

“A me i dottori dicono che sono matto”.

“Come il fratello della mamma?”

“Tuo zio?” chiese Luigi.

“Sì, zio Orlando”.

“Che fa di strano zio Orlando?”

“Niente, però ogni tanto resta chiuso in casa a prendere medicine. I miei genitori dicono che è fuori di testa e che bisogna lasciarlo in pace. A me sta simpatico. È sempre gentile e d’inverno mi compra le caldarroste”.

Una signora si avvicinò al tronco. Sorrise.

“Alessandro, hai fatto amicizia?”

“Sì, mamma. Francesco mi ha mostrato la fotografia di Agnese”.

Il sorriso scomparve dalle labbra della signora.

“La mia gallina, una livornese di due anni”, disse Francesco e le mostrò la foto.

La signora si scusò, disse che si era fatto tardi, il bambino era tutto sporco, doveva fare la doccia prima della lezione di jiu jitsu. Lo prese per mano e si allontanarono. Francesco mangiò i panini. Quando ebbe finito rimase seduto a osservare le anatre che sguazzavano nel laghetto. Cominciò a piovigginare. Indossò la giacca impermeabile e si avviò alla stazione. C’era poca gente. Il barboncino nano sul cuscino rosa lo fissò dal cartellone. Lui gli fece un cenno di saluto ed entrò nel McDonald’s. Ordinò una porzione di patatine fritte. Si sedette su una panchina, mangiò le patatine, bevve l’acqua. Rimase a fissare le rotaie finché non annunciarono la partenza della Freccia. Andò al binario quattro e si sistemò nella carrozza 7, posto 1A, accanto al finestrino. Il treno partì in orario. Lui scrutò il cielo: le galline livornesi erano scomparse. Restava un velo grigio che copriva case e grattacieli.

“Forse sono guarito”, pensò, e rabbrividì.

Agosto 2024

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