Renzo Favaron

Omaggio

ANNO 02 | NUMERO 23 | SET 2024

I giorni che precedettero la scomparsa di Gas furono i più atroci della mia vita. Mi riesce difficile fare un racconto preciso di tutto ciò che provai, pensai e attuai, perché sebbene ricordi con incredibile minuzia molti avvenimenti, ci sono ore e addirittura giorni che mi appaiono come sogni brumosi e deformi. Ho l’impressione di aver trascorso interi giorni sotto l’effetto dell’alcol, buttato sul letto o su una panchina di Monte Mario. Giunto al bar del “Bell’Antonio” mi ricordo bene sedere e bere insieme un bicchiere dietro l’altro; ricordo vagamente che ci siamo alzati, abbiamo pagato e siamo usciti; poi ci sono stati rumori di musica, grida, una risata irritante, bottiglie rotte, luci fastidiose. Poi la confusione è cessata e le campane della chiesa presero a rintoccare, colpi di bronzo che risuonavano in alto nella densa aria azzurra. Nello stesso istante, mentre ci abbandonavamo contro il marmo della panchina, Gas mi chiese:

     «Sai chi è Nicolas De Stael?»

     «Pressappoco», risposi.

     Gas mi guardò e in tono meditabondo disse che voleva vedere un quadro del 1952. «Per la precisione», aveva aggiunto, «l’Omaggio a Sidney Bechet».

     «E quando l’avresti visto?» domandai incuriosito.

     Gas guardò intorno facendosi confuso.

    «Quando l’avrei visto?» Si guardò dietro e tutt’intorno come se avesse dimenticato quello che aveva detto, o come se fosse un abbozzo di battuta di un’altra commedia. «Il punto è proprio questo…»

     A un tratto i lampioni si spensero in tutta la piazza. Sentivo che mi stava guardando, e anche più attentamente di prima. Misurava la mia pazienza, capite? Per un po’ stette in silenzio. Mi guardava, e taceva. «Che situazione… che situazione», pensavo.

   «Sai una cosa?» mi disse sfiorandomi il braccio. «Mi piacerebbe molto saper disegnare. In verità una volta ci provavo. Ma non ne veniva fuori gran che».

     Aspettò sorridendo. Io non dissi parola. «Che sia ubriaco marcio?» pensavo tra me.

     «Erano solo disegni del tutto personali», si affrettò a precisare, «di cui io stesso, dopo un certo tempo, non riuscivo più a comprendere il senso».

      «Uno dei prossimi giorni me li dovrai mostrare», mormorai, deglutendo.

     Si voltò ancora a guardarmi. Poi si accese una sigaretta e disse che sapeva che “questo” non mi interessava.

      Era vero. Ma gli dissi: «Ti sbagli. Perché non dovrebbe?»

      Non ottenni risposta.

     «Certo che mi interessa», aggiunsi.

     Gas chiuse gli occhi, per un’ istante. Poi, con un tono profondamente meravigliato, mormorò:

     «Non li ha mai visti nessuno».

    Mi voltai sorpreso. Allora abbassò la sua voce e mi disse che l’Omaggio a Sidney Bechet era un frutto maturo. Non sapeva se fosse bello o brutto, ma questo non aveva probabilmente alcuna importanza. Era qualcosa di essenziale per ciò che doveva fare, benché non se ne rese conto lì per lì.

     «E quando?» chiesi.

     Mi guardò e disse, come a se stesso:

    «L’inverno dell’anno scorso». Poi aggiunse: «Ero a casa e la radio trasmetteva Petit fleur. Dapprima avevo ascoltato il brano distrattamente, poi mi ricordai di un episodio. Urtato», disse strascicando le parole, «m’inchinai profondamente verso la signora che aveva cozzato contro di me. E quando alzai la testa, notai la locandina con l’Omaggio a Sidney Bechet». E più la guardava, più ne era attratto. Tuttavia gli ci volle del tempo prima di mettere a fuoco le figure, sospese tra realtà e sogno. Poi, come per una specie di illuminazione, ogni oggetto cominciò a precisarsi, disse. «Quello che a tutta prima mi era sembrato un clarinetto», aggiunse, «era invece un sax soprano…». A farla breve, questo lo incuriosì e si avvicinò alla locandina: il titolo era stato omesso. 

   Il giorno seguente, esasperato dalla curiosità, entrò in una libreria sul Quai de Passy. Dopodiché, balbettando, spiegò a un giovane libraio quello che gli era successo e questi rispose, guardandolo dritto negli occhi: «Souvenir a Sidney Bechet».

    «Souvenir a Sidney Bechet!» sbuffò. Poi ripeté ancora una volta il titolo e, dopo una pausa, disse che lo trovava ordinario. Allora il libraio, cordiale come prima, ribatté che Souvenir si poteva tradurre in più di un modo.

     «Comment?» chiese, e il libraio esclamò prontamente: «Omage probablement c’est le mot plus appropriè». 

     Riascoltando Petit fleur a distanza di tempo, Omaggio a Sidney Bechet era un gran titolo, si disse, un titolone. Poi… 

     Poi spense la radio e fece una lista delle canzoni che conosceva a memoria. Alla fine, c’erano solo le canzoni del creolo. Non capì che era finita, ma era così.

     Ricordo… Cristo, ci sono dei momenti in cui vacillo. Ricordo che continuava a guardarsi intorno con aria corrucciata, in modo goffamente irritato, come se avesse perduto qualcosa e non sapesse dove ritrovarla. Vago: ecco la parola che ho sempre associato a lui, sfuggente, evasivo, astratto e poi le varianti del genere distratto, mancante e ora, ovviamente, in questa conseguenza interminabile, nel frastuono di una connotazione nuova, assente.

     Al lato opposto della piazza stava seduto Romolo, l’ubriaco che giocava a fare il ragno e rideva tra sé. Gas guardò con disgusto le rotondità dell’ubriaco e scosse la testa. Poi mi mise una mano sulla spalla e mi guardò dritto negli occhi, pregandomi di accompagnarlo ad Antibes.

     Non risposi subito. Il disagio che provavo pesava infinitamente di più di un minuto di comportamento inspiegabile. Solo dopo che mi ebbe incalzato con la stessa domanda stabilii che era tempo di parlare:

     «A far cosa?» borbottai tra le rughe del volto.

     «Pacchia».

     (Si diceva così a Primavalle. Vagavi a vuoto e uno chiedeva: «Cosa fai?» «Faccio pacchia».)

     «Non scherzare», gli dissi.

     «Non scherzo», sorrise.

    Oh, dio buono, che cosa mi meritavo? Gas era un uomo ancora giovane, trentenne appena, come ho già detto, ma in quei momenti mi sembrava un vecchio impaurito. Dissi: «D’accordo», e accesi due sigarette insieme. Poi guardai l’orologio: erano le cinque e mi ritrovavo a lottare contro una marea d’impazienza, annaspando faticosamente per tenermi a galla.

     Bene, gli misi una sigaretta in bocca. E prima che mi rendessi conto che era  successo, era successo un’altra volta. Eccolo, l’ubriaco vicino a noi aveva cominciato a fare segni bizzarri con la mano. E continuava a tossire. Un latrato secco, bizzoso, che straziava le orecchie. Trattenevo a fatica, con le braccia incrociate, l’istinto omicida del mio corpo. E proprio quando stavo per andarmene, Gas si schiarì la voce e disse:

     «Se non c’è chi mi accompagna, ci vado lo stesso ad Antibes e poi a Parigi».

     «A Parigi?» gli feci eco.

     «Al museo d’arte moderna».

     «È lì l’Omaggio a Sidney Bechet?»

     «Ha importanza?», disse, e io ribattei: «Non sei sicuro che sia lì?»

     «No».

      Emise un profondo sospiro, aspettando che gli chiedessi quel che infatti gli chiesi:

      «E se non fosse al museo d’arte moderna?»

    «Pazienza». Poi, senza la mediazione di un intervallo, aggiunse:  « È stato così anche con la musica».

      «In che senso?» chiesi.

      «Nel senso che non mi sono mai risparmiato».

      Lo guardai più spaventato che allibito.

      «Non capisco dove vuoi arrivare».

     «A questo», disse. «Non sono Stitt né Pepper, ma come loro ho sempre cercato di ridare soffio a tutti i musicisti che ho suonato». Pensoso, guardò sopra le mie spalle, là dove sboccava la piazza. Poi tornò ad accavallare le gambe e aggiunse, un po’ a disagio: «E spero di esserci riuscito, anche se non penso che ne valesse la pena».

     «Al contrario», ribattei. «Stai esagerando».

     «No, Luca. Rischio di perdermi».

   «Di perderti?» ripetei, e lui disse lentamente: «Se continuo a suonare la loro musica».

     Ora provavo una cosa che non provavo spesso: imbarazzo. Allungai il collo e lo 

guardai. Poi dissi:

     «Cosa vuoi dimostrare? Voglio dire… devi, devi proprio andarci a Parigi?»

     Gas sbattè le palpebre e sorrise con una sorta di tenero autorimprovero.

     «È un modo come un altro per macinare il frutto della propria semina e per passare ad altro. Tutto qui», aggiunse.

     Che il mio compagno sia andato sul serio a Parigi, lo ignoro. So, comunque, che un giorno lasciò la casa e per un pezzo nessuno ha più saputo nulla di lui. Una volta al bar dei Fratelli Fabbri, Danilo Terenzi mi disse di aver incontrato Gas a Milano. 

     Abitava in una cantina umida e buia, che era meta di spacciatori e consumatori abituali di eroina. Spesso questi arrivavano con borse piene di dischi e trasformavano 

la cantina in una specie di emporio depravato, whisky, hascisc, Coca cola, L.S.D. e birra.

    Non viveva da solo, ma con un cane. Lui era gonfio come un sacco di crusca, irriconoscibile. Molto del suo tempo lo passava a bere e fumare principalmente per rinfrancarsi dagli effetti dell’alcol e del fumo. Per di più, non perdeva occasione di provare ogni droga che gli capitava per le mani. I suoi denti erano tutti scheggiati e caduchi.

     Col passare dei mesi ho sentito una quantità impressionante di storie diverse.

     A Levico, al braccio di una signora con almeno vent’anni più di lui, insegnante in pensione a capo di un’agenzia che organizzava soggiorni climatici per anziani. In altre versioni la piacente signora era una mantenuta e truffatrice di uomini soli.

     Assistente e consulente artistico di una ballerina ungherese che si esibiva in locali notturni.

     A Spello, nell’eremo di San Girolamo, magro come un chiodo e astinente da alcol e fumo, faceva l’aiuto cuoco e alla sera intratteneva i pellegrini con il suo sax. Sembrava felice, ma come se avesse dimenticato tutto di sé – tipo pugile suonato.

     Pappone di una quindicenne scappata dall’orfanotrofio di Verona.

     In una località del mare Adriatico, capelli cortissimi e orecchino, guardiano di una villa disabitata in cambio dell’alloggio e di un rimborso spese.

    Barbone a Salisburgo preso a bastonate da un netturbino turco.

   Una sera l’ho visto in sogno e mi ha sussurrato: «Tredici, sono al 22 di Borgo Isonzo, a Latina».

    Il giorno dopo sono andato a prenderlo e l’ho portato a casa. Mi ha promesso che sarebbe tornato a suonare, ma sapevamo tutti e due che non era più in grado di farlo. Sapevamo tutti e due che non aveva più una goccia da spremere.

    Ed io, al contrario di lui, non ce l’avevo mai avuta, come se fossi stato, cosa? Solo e sempre un musicista da sottoscala e localini di anonime periferie.

    Ciao Gas.

Settembre 2024

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