Giuseppe Caretta
Tornando a casa
ANNO 02 | NUMERO 23 | SET 2024
Kathryn Delaware la conobbi all’aeroporto di Londra, in una mattinata tremenda di guasti tecnici e ritardi. Rientravo in Europa dopo tre mesi di viaggio. Ero stanco e tremendamente affamato. Il volo da Bogotà a Orlando era stato orrendo, così come quello che dalla Florida mi aveva portato in Inghilterra. Non avendo più un solo centesimo in tasca avevo dovuto saltare il pranzo. Nemmeno quello, ci avevano garantito con l’acquisto del biglietto.
Avevo speso gli ultimi soldi per pagare il taxi. Romeo, il mio autista personale su Bogotà, mi era passato a prendere in albergo alle quattro del mattino. Avevo scoperto che la sera prima era rientrato dal lavoro a mezzanotte. “Tre ore di sonno mi bastano” aveva detto sorpassando agilmente una fila di autobus fermi al semaforo. “Mia moglie è contenta perché porto a casa abbastanza soldi per i bambini”. La vita di quell’uomo mi affascinava. Bogotà, mi affascinava. Claudia, mi affascinava. A chi dovevo le esperienze attraverso le quali ero passato indenne? Appena sceso dal pullman che dalle regioni meridionali del paese m’aveva portato nella capitale, quella donna mi aveva letteralmente preso sotto la sua protezione: “Italiano? Deve venire con me – m’aveva detto – non la lascerò andare in giro da solo per questa città. Sarò la sua guida”. E così era stato. Prima ancora di capire dove mi trovavo, lei m’aveva messo su un taxi e portato a casa di sua figlia, dove avevo lasciato il mio zaino. “Ora la porto a conoscere la nostra città” aveva continuato. In un baleno m’ero ritrovato nello stupendo museo dell’Oro, davanti alle sue armature sacre, ai suoi gioielli votivi, alle sue maschere cerimoniali. La voce dei popoli nativi risuonava nelle mie ossa come un canto familiare e al contempo estraneo. Finimmo a passeggiare per la Candelaria. “Adesso le farò assaggiare un piatto tipico”.
L’ajiaco santafereño mi si sciolse in bocca con la sua densa aromaticità sudamericana. Una consistenza farinosa inattesa mi increspò il palato: “Non le piace? – continuava Claudia senza darmi il tempo di elaborare le mie impressioni – Voi europei non avete il gusto sviluppato per questi sapori. Pensi che qui ci sono non una, ma tre tipi di patate diverse. E poi il mais. E questa erbetta qui, che sembra niente ma che da tutto il gusto conclusivo”. Si mise poi a confabulare col cameriere chiedendogli informazioni su di un albergo dove avrei potuto alloggiare. Non mossi un solo muscolo, in quell’ultima parte di viaggio. Nel giro di un’ora avevo la mia valigia a disposizione sul mio letto matrimoniale. Fu Romeo a portarmela: “La signora Claudia mi ha pregato di consegnarle questa” mi aveva detto venendomi incontro davanti alla porta dell’hotel. “Se posso esserle utile non esiti a contattarmi ancora”. E così era andata a finire. L’ultimo giorno lo passai con loro due, in quell’aria da fine dei giochi che sempre ti resta addosso quando fai rientro ai tuoi luoghi di nascita dopo una lunga peregrinazione per il mondo. Mi portarono nel nord della città, lungo un crinale dove dei distinti quartieri moderni cancellavano con fermezza i turbolenti vicoli del centro. Claudia mi spiegava ogni cosa: “Questa è la zona delle banche internazionali” mi diceva orgogliosa. “Qui invece c’è il centro commerciale più grosso di Bogotà”. Ad un incrocio scorsi una giovane stupenda, triste e sola col suo grosso cane bianco. Guardava nel nulla, ed era di una tale bellezza che avrei voluto scendere dal taxi solo per raggiungerla e sederle accanto. Invece mi trovavo assieme a questa donna panciuta, dell’età di mia zia. Mi parve di veder sfiorire tutti gli slanci della mia vita passata. Forse stavo diventando vecchio come lei e, d’ora in avanti, il mio destino sarebbe stato quello di accompagnarmi a donne mature. Fu un pensiero avvilente.
Però Claudia aveva questa eccitazione perenne che riusciva ad attirare la mia attenzione. Volle fermarsi in un gigantesco ristorante italiano, un posto esclusivo, protetto da guardie armate. Riuscimmo a entrare facendo finta di essere lì per il pranzo. “Ora le mostro la più bella vista sulla città – mi disse – poi andremo a mangiare in un locale più spartano”. Non solo entrammo, ma lei fu talmente solerte da riuscire a farci accompagnare al piano superiore. Era un enorme chalet costruito fra la roccia. Il versante nord era incastonato nella pietra, quello meridionale dava su Bogotà. Animi e corpi se ne stavano nascosti, a milioni, sotto i tetti roventi della capitale impigrita dal mezzogiorno. Mi fece parlare coi cuochi, chiese ai camerieri di farci delle fotografie. Tutto era così imbarazzate e stantio che ebbi voglia soltanto di tornare a casa. Fu solo grazie a Romeo che mi riuscii di proseguire. Ogni volta che salivamo sulla sua auto era come entrare in un regno incantato. Salutava il mondo con testardo buonumore, ci raccontava i suoi aneddoti, ci conduceva sui sentieri meno battuti della zona: “Io sono stato in Italia una volta sola, due anni fa” attaccò. Mi raccontò di essere passato nella mia regione per una vacanza, di aver accettato l’invito di una donna che aveva portato in aeroporto e che, per qualche ragione, gli aveva proposto di raggiungerla. “Io sono sposato – disse – sono partito di nascosto”. Con molta modestia, ci risparmiò i dettagli della sua infedeltà mentre Claudia, impertinente, continuava a tempestarlo di domande inopportune.
Ci fece scendere una seconda volta in una braceria che stava sulla strada. L’odore di carne aleggiava nell’aria per decine di metri: “Vi verrò a riprendere quando mi chiamerete” disse. E se ne andò lasciandomi solo e atterrito con quella donna che sospettavo d’essere affetta da una qualche forma di pazzia senile. Mi fece mangiare di tutto. Non volevo bere, questo era il mio proposito di quei giorni stupendamente riflessivi. Avevo preso la decisione di darci un taglio, questo m’aveva portato in dono il mio viaggio. Invece lei mi provocò fino a farmi cedere: “E dai, non faccia il bacchettone” disse mettendomi una bottiglia davanti. Pensai col lato periferico del mio corpo. “In fin dei conti – commentai fra me e me – potrei sempre portarla in un praticello e sollazzarmi con lei per una mezz’oretta”. La cosa divenne un’ossessione. Le guardavo le labbra e cercavo di immaginarmi il fatto compiuto. “Non so – rispondeva l’altro me -. Brutta è brutta. Però le labbra non sono male”. A questo si dedicano i pensieri di un uomo affamato. Non me ne vergogno.
Quando finimmo di mangiare andammo a fare una passeggiata. C’erano le mucche e le staccionate che sembrava di stare in Svizzera. Ci stendemmo sull’erba. Il suo grosso copro sformato si adagiò sul terreno come planando dal cielo. Duplicò di volume. Eppure io le guardavo le labbra, intestardito a dar sfogo al mio senso frustrato di mascolinità inespressa. Mi avvicinai, le misi una mano sul seno enorme, glielo strizzai e le ficcai la lingua fra i denti. Fu una delle sensazioni più spiacevoli e disgustose che abbia mai provato con una donna. La sua lingua mi parve una lumaca morente. Le sue labbra, che non aderivano alle mie, lasciavano passare l’aria tiepida del meriggio come delle folate di vento fra le grate di una finestra senza vetri. Fu un capitombolo in piena regola. Mi sentii il sangue ribollire dallo sdegno per me stesso, per lei, per il modo stupido in cui avevo immaginato di possederla. Era tardi, ormai. Dopo quel momento mi ci volle un’ora buona, per riuscire a calmarla di nuovo. Mi propose di chiamare Romeo, di farci portare in un albergo ad ore. “Ce ne sono di ottimi nella zona” disse con una sospetta praticità. Quando infine mi riuscii di farla ragionare dovetti scusarmi dell’azzardo avuto: “Sono stato mosso dalla riconoscenza – le dissi falsamente -, quello che hai fatto per me in questi due giorni è stato incredibile. Perdonami, sono stato impulsivo”. Sbrogliato questo malinteso riuscimmo finalmente a rimetterci in taxi. Romeo guidava con un sorrisino appena accennato. “Dammi un bacio” provava a ripetere Claudia scaraventandomisi addosso. Solo con molte peripezie mi riuscii di tenerla a bada. Davanti all’albergo il nostro saluto fu sincero ma molto distaccato. “Domattina alle quattro” ribadii a Romeo. Li lasciai andare via e, una volta in stanza, respirai a fondo cercando di calmare il senso di disgusto che mi saliva dalle viscere.
La mattina dopo, da buon professionista, egli non proferì parola su quanto aveva visto. Mi condusse in aeroporto, avanzando con sicurezza fra il tenue traffico dell’alba. Mi salutò con molto zelo: “Semmai dovesse tornare, signore, il mio numero è sempre a disposizione”. Mi gettai letteralmente fra la fila di passeggeri che aspettavano di imbarcarsi.
In aereo mi acclimatai finalmente all’idea della partenza. Seduto fra un grosso americano che se ne andava in vacanza in Europa e una minuta donna inglese che non mi rivolse la parola neppure una volta in otto ore di volo mi lasciai andare alle suggestioni sentimentali che accompagnano un viaggiatore verso il sentiero che lo riconduce al punto di partenza. Giusi a Londra in uno stato di stanchezza assoluta e fu lì che conobbi Kathrine.
La sua voce mi giunse alle spalle come una mitragliata: “Ma imbarcano o no?” mi chiese. Voltandomi fui colpito dall’immagine della sua bellezza inattesa. Aveva i lineamenti negroidi e delicati, la linea dei fianchi sottili, le labbra mature da amante piena di passione. Delle treccine africane che le scendevano lungo le spalle ritenni nella mente solo la consistenza pietrosa della loro essenza primitiva. A compendio di questa rudezza, però, ella emanava una sensuale gentilezza cittadina, compita. Aveva attitudini da cosmopolita, una voce stabile nel ventaglio timbrico dei suoni sinfonicamente pronunciati a modo, una gestualità ragazzina eppur non immatura. Era una piccola dea in incognito, la riconobbi subito.
Non lasciava trasparire nei miei confronti alcun interesse particolare. Solo mi domandò se il volo era ancora previsto. “Google mi dice che è stato cancellato” spiegò a parole brevi. Dentro, vomitavo dalla tensione. Chi era che mi mandava questo regalo? E quanto avrei potuto ucciderlo, soltanto a pensarlo come tale? Risolsi di non porre alcun giudizio.
Continuammo a conversare per una buona mezz’ora. Occhi rilassati, spalle distese. Ogni cosa del suo corpo mi comunicava un’apertura umanamente interessante. Il gioco della seduzione danzava nelle retrovie, nascosto. Mi pareva, parlandole, di arrivare a conoscerla veramente, per quel poco che ci fosse dato in una simile circostanza. Nei fui calmato. Non dovevo, in questo caso, esibire nessuna sciocca attitudine. Ogni secondo, ogni frase avrebbe potuto essere l’ultima.
Ci mettemmo in fila per l’imbarco. “Undici F” disse l’addetto. Lei sorrise e avanzò le sue gambe da giraffa selvaggia. Io la seguii. Percorremmo il corridoio che portava all’aereo. Quando lei sedette io mi misi accanto guardandola con un certo imbarazzo: “Ho l’undici D” le dissi quasi scusandomi. Chi era, che c’aveva fatto incontrare a quel modo?
Il viaggio fu una lenta traversata nella nostra intimità. Conversavamo senza esagerazioni, infarcendo tutto con una dose di pudicizia e di rispetto che mi piacque molto. Ci addormentammo a momenti alterni: “Devi essere molto stanco – mi disse -. Non sentirti obbligato a parlare con me, se hai sonno dormi pure tranquillo”. Questa confidenza è uno dei regali più belli che si possano ricevere dal prossimo. Chiusi gli occhi e dormii per una mezz’oretta. Forse russai. Forse mi sbavai addosso. Poco importa. Ogni volta che riaprivo gli occhi lei era lì, vicinissima e stupenda. Coi suoi capelli crespi che le sbucavano alla base delle treccine, col suo naso arcuato e sporgente, con le sue labbra semichiuse nei momenti di sonno che anche lei si concedeva. La vedevo respirare serena, come fossimo nella nostra alcova privata. Così giungemmo infine a Roma.
L’attesi fuori dal bagno mentre si cambiava, le tenni la borsa mentre ritirava dei contanti. Fianco a fianco come una coppia di novelli sposi. Le offrii la colazione, poi il biglietto fino alla stazione Termini. Nel treno, dopo ormai una mezza giornata trascorsa insieme, le nostre teste si avvicinarono una all’altra. “Sono tanto stanco” dissi poggiandomi sulla sua spalla. Lei mi accarezzò il capo con premura. Sentii il suo profumo scivolarmi nel petto. Arrivammo a destinazione sotto un cielo plumbeo e minaccioso. Dalla via che porta a San Lorenzo risalivano poderose e fresche raffiche di vento di fine estate. C’era una certa aria di fretta, tutto lì intorno, come spesso capita quando ci si spiccia per non incappare nella tempesta imminente. Corremmo anche noi. Presi per mano, andavamo freneticamente alla ricerca dell’Uber che l’avrebbe definitivamente portata via. “Mi fermerò qui solo due giorni – m’aveva spiegato lungo il tragitto -, ma conto di ritornare il mese prossimo per passare un altro po’ di tempo nel vostro Paese”. Ovviamente l’avevo invitata a fermarsi nella mia casa al mare, qualora avesse deciso di raggiungermi in Puglia. “Ho un piccolo giardino. E una moto, all’occorrenza. Da noi, la costa meridionale declina già nelle forme tipiche del cuore del Mediterraneo. Nelle giornate limpide si vede l’Albania. Abbiamo ulivi a migliaia e i fichi d’india colorati che in settembre sono buonissimi”.
Venne infine il suo autista. L’auto si fermò davanti a noi proprio nel momento in cui il temporale scoppiò, grosso e fresco. Fu in quel momento che ci baciammo. Il suo corpo lungo e snello aderiva al mio con prepotenza. Lei mi stava avvinghiata addosso, intrecciando una gamba fra le mie come un serpente. Baciava con passione, intensamente e senza risparmiarsi. Sentivo lo spessore delle sue ossa sotto le dita, il battito delle sue ciglia sulle mie palpebre. Quando ci staccammo il mondo sembrava essere scivolato in un piano remoto dell’esistenza. Dovetti riavvicinarmi ad esso per gradi, come quando ci si sveglia da una pennica pomeridiana. Accanto a noi, un giovane indiano ci fissava con gli occhi sgranati. Sembrava non aver mai visto una cosa simile in vita sua. Infine lei raggiunse l’auto e si infilò svelta sul sedile posteriore. “La signora viaggia sola?” mi chiese l’autista vedendo che non la seguivo. Feci un cenno affermativo ed egli chiuse delicatamente la portiera. “Have a good trip, honey” mi disse schioccandomi un bacio con la mano. Le sue lunghe gambe sottili, come bacchette di miele, si mossero armonicamente fino a posarsi su un lato. Se la portò via il vento. Se la portò via la pioggia. Mai più mi capitò di rivederla eppure, per il tempo che durò la nostra conoscenza, mi sentii baciato dalla sorte e felice di aver trovato finalmente la donna della mia vita.
Settembre 2024