Carlo Rossi
Atlas
ANNO 02 | NUMERO 24 | OTT 2024
Sfidare i decibel di una musica terribile. Questo il primo vero step. Poi entrare nello spogliatoio e indossare la mia personale armatura.
Non me la sento di mentire: mi faccio guerriero pronto a scendere nell’arena.
Debutto in sala, un cenno del capo per salutare freddamente. Ho solo un’ora, non mi va di cianciare.
Metto le cuffie. Mi isolo. The Red Rage, The Machine Ltd e poco altro mi mettono fuoco in petto. Cambio il respiro, cambio lo sguardo e comincio.
Il riscaldamento è breve ma efficace. È un battesimo che richiama sangue. Il mio corpo si adatta al cambiamento e produce calore, suda. La chiamano omeostasi.
Sono nella mia zona di comfort. Mi scrollo di dosso una mattinata di lavoro. Taglio fuori i problemi del mutuo e mando in un cassetto le beghe di ogni relazione. Inizio ad annusare ottimismo.
Prima i muscoli grandi, poi quelli piccoli. È una legge del body-building. Qualcuno lo considera uno sport estetico. Io lo considero un piccolo atto di sabotaggio contro me stesso, ma a fin di bene.
Non ci sono competizioni. Non c’è starter ad imporre uscita dai blocchi. Non c’è traguardo comune da tagliare. Non ci sono lancette del cronometro da inseguire, come pure una palla da rincorrere. Non ci sono tifosi a spronarti. Solo. Solo contro tutti. Solo contro te stesso.
L’obiettivo è legato al valore che assegni al workout. Stanare il limite è il mio obiettivo. Ho in serbo una valida motivazione.
Body-building, doping. Inutile girarci intorno. È convinzione comune: se ti alleni con i pesi ti droghi. Io?
Procurarsi roba è facile. In rete, oppure tramite qualche amico veterinario.
Funziona, non lo nego. Il ferro ti sembra gommapiuma. La pelle ti si slaccia di dosso e crea smagliature predate da una selvaggia ipertrofia delle fibre. La rabbia ti monta dentro e sbotti per un nonnulla. Gli steroidi rendono i tuoi muscoli di una travolgente abbondanza e, insieme a loro, anche le pareti del cuore si ispessiscono come pure altri organi interni e le ossa. Alla lunga cambiano anche i lineamenti del volto. La mandibola cresce e tutti gli spigoli del viso si accentuano. Non c’è alcun vantaggio nel farsi. E poi, oltre al danno è evidente la beffa: anche un coglione potrebbe capire che ti bombardi con testosterone, GH e merda varia. No, non uso nulla. La mia droga è la serotonina che produce il mio corpo dopo l’allenamento. Mi basta.
Il bilanciere è già sui rack. Carico i dischi.
Annullo ogni interferenza visiva e focalizzo l’essenziale. Squat. Libero. È un esercizio imprescindibile. Lo capisci solo quando lo esegui.
Occorre tener conto di fattori morfologici per capire la dinamica dei movimenti. Devi sentire tutti i muscoli target contrarsi e poi allungarsi. Devi accoccolarti, portare il tuo culo quasi a terra. E poi devi risalire, lento ma inesorabile, ad ogni costo, come nella vita. Sfido la gravità con un peso immane sulle spalle, ripeto le fatiche di Atlas. Mi piace questo esercizio, assomiglia a ciò che già faccio ogni giorno in molti contesti. A cominciare dal risveglio, con quel buon motivo per scendere dal letto che manca da sempre.
Il bilanciere assume la temperatura dell’ambiente: è freddo d’inverno e bollente d’estate. Il suo bacio passionale, alla base della nuca, è irruento. La carne unita al ferro. Incrocio il mio stesso sguardo nello specchio che mi inquadra a figura piena, frontalmente. Mi dico che sono pronto. Lo sono. Stacco centoventi chili dai rack, li sento tutti, ma è un fardello più leggero di quello che mi porto dietro da decenni. Da quando ero un ragazzino e mio padre mi metteva in un angolo. Ne uscivo solo quando si era sfogato a dovere.
Tumefatto, intontito, con lo sguardo annebbiato. Trascinavo il mio mucchietto di ossa in camera. Ero in preda alla delusione? No. Alla rabbia? Neanche. Quella sarebbe giunta anni dopo. Pensavo a rattoppare le lacerazioni dell’anima, nascondere i tagli della pelle, a trovare una scusa per l’occhio pesto che mi sarei portato dietro per giorni. Ecco cosa mi diceva il cervello. Il mio pensiero si adattava all’inferno. Omeostasi.
Oggi sono preda della collera che mi è mancata al tempo, ma non avrò vendetta. Lui si è schiantato contro un TIR nel ’92. I vigili del fuoco hanno impiegato ore per tirarlo fuori dalla Delta. La carne unita al ferro. Giunti i soccorsi, sulla strada, il primo odore che hanno sentito è stato quello dell’alcol.
Si scolava di tutto. Faceva colazione con vino da due soldi: ne buttava giù due tazze e le sue mani smettevano di tremare, così poteva vestirsi anche senza chiedere l’aiuto di mia madre, un fantasma che girava letargico per casa. E poi scendeva al bar di sotto. E giù di birra. I superalcolici nel pomeriggio e chissà cos’altro fino a sera.
All’ottava ripetizione il carico dà fuoco alle fibre congestionate e il fallimento è suadente anestetico per il cuore. Ma tengo duro, non mi farò mettere in un angolo.
Non ho bisogno di anabolizzanti. Ho una motivazione valida per portare il peso del mondo addosso. Non sono più un mucchietto di ossa.
Oggi sono Atlas.
Ottobre 2024