Emanuele Tarchi

In cerca del Sole

ANNO 02 | NUMERO 24 | OTT 2024

Allontanavo le lucertole dall’ortica.

Non potevo sopportare che delle creature così piccole e indifese che niente sapevano del mondo potessero cacciarsi in tali pericoli. Quando le vedevo, allungavo la mano e loro scappavano. Lo facevo anche se l’ortica era l’unica pianta al sole di tutta la campagna. Tentavo di salvarle da un inganno naturale che le avrebbe viste vittime senza possibilità di difendersi. In fondo, le lucertole sono esseri che il buon dio sembra aver creato per dimenticarsene l’attimo appena dopo.

Allontanavo le lucertole dall’ortica.

D’estate trascorrevo le mie giornate disteso di fianco all’ortica. Mangiavo lì, pisciavo lì, bevevo lì, ma sempre con un occhio vigile sulla pianta in modo da intervenire ogni volta se ne presentasse la necessità. Rientravo in casa soltanto dopo il tramonto, quando ero sicuro che il sole non si sarebbe rivisto fino al giorno successivo.

Non mi interessava nient’altro, né le ragazze né la compagnia di un amico. Avevo già tutto ciò che mi occorreva ed ero sicuro di aver trovato la mia dimensione. In qualche modo, sentivo che sarei morto se qualcuno mi avesse portato via da quel posto.

Allontanavo le lucertole dall’ortica.

Lo facevo sempre con un movimento lento, contemplativo; mettevo tutto me stesso in quel gesto. Ormai conoscevo le abitudini delle lucertole. Sapevo da quale parte arrivavano, a che ora del giorno, quali condizioni atmosferiche preferivano e cosa mangiavano. Dal modo in cui mettevo la mano per allontanarle riuscivo persino a direzionarne la fuga.

Tenevo a portata di mano un foglio sul quale scrivevo queste e altre informazioni. Appuntavo tutto con una precisione maniacale cercando di prestare attenzione ai minimi dettagli. Catalogavo le lucertole per colore, dimensione, sesso, lunghezza della coda, lunghezza delle dita che costituiscono le zampe, rapidità di movimento, presenza di disegni sul corpo. Mi piaceva osservarle e passare il tempo con loro.

C’era un’unica cosa che non capivo, cosa le spingesse a cercare sempre il sole.

Allontanavo le lucertole dall’ortica.

I miei genitori non erano d’accordo con questa nuova attività. Mia madre pensava che fosse soltanto la forma che avevo scelto per manifestare la mia ribellione adolescenziale. Mio padre, invece, era convinto che ci fosse in me qualcosa di strano. Da aggiustare, diceva, non è normale che un ragazzo della sua età si comporti in questo modo, ha dei problemi. È giovane, caro, in fondo non fa del male a nessuno, anzi, replicava mia madre.

Quando a sera rientravo in casa, mio padre mi riempiva di domande alle quali non avevo mai voglia di rispondere; allora prendevo la cena e mi chiudevo in camera a fare il disegno di ogni lucertola salvata.

Allontanavo le lucertole dall’ortica.

Come mai proprio le lucertole e non i gatti o le farfalle, mi chiedevano. Sai quanta compagnia potrebbe farti un animale domestico, anche un cane, compriamo una palla e giochi con lui, come tutti i figli delle famiglie che abitano qui vicino.

Oppure, L’ortica non fa alcun male alle lucertole, a questo punto meglio salvare le mosche intrappolate nelle ragnatele, quello sì che sarebbe un gesto elegante. Per chi, avrei voluto dire, per il ragno che si vede togliere da sotto gli occhi il pasto, che gesto nobile, all’ortica non tolgo niente e alla lucertola evito il dolore; possibile che non ci sia modo di starsene un po’ in pace. Ma non dicevo mai nulla, mi limitavo a rispondere che non avevo voglia di parlarne e correvo via. Anche un cane, cosa poteva darmi? Non mi interessava proprio.

Ognuno ha il suo. Non ho mai capito il motivo per cui i miei genitori volevano farmi diventare come tutti gli altri ragazzi che abitavano la campagna. Mi ero accorto di essere diverso e mi andava bene così. In qualche modo, avevo l’impressione di star diventando sempre più simile alle lucertole, esseri solitari.

Allontanavo le lucertole dall’ortica.

Di tanto in tanto uno di questi ragazzi veniva a salutarmi portandosi dietro il cane. Non so se fosse un’idea dei miei genitori, ma quella presenza mi infastidiva. Io non avevo voglia di parlare, né tantomeno di rispondere alle mille domande che mi venivano fatte. Così stavo in silenzio, e se volevi rimanere dov’ero io dovevi tacere anche tu, questa era la modalità. A me non interessavano gli amici e alle lucertole non interessavano inutili disturbi.

Ci fu una volta in cui il cane di uno di questi ragazzi, dopo aver annusato tutto intorno, alzò la gamba per pisciare proprio sull’ortica. Lo spinsi via, lui mi abbaiò contro e io presi a urlare dicendo al moccioso del padrone che non volevo tornasse qui con quella bestiaccia, che la portasse da qualche altra parte a fare i bisogni. Iniziammo a litigare. La cosa andò avanti finché mia madre non arrivò a calmare la situazione. Voleva che ci chiedessimo scusa e che tra noi ci fosse una stretta di mano.

Quel pomeriggio non vidi nemmeno una lucertola.

Allontanavo le lucertole dall’ortica.

I giorni di pioggia significavano allo stesso tempo felicità e frustrazione, per me. L’ortica si sarebbe nutrita senza correre il rischio di essere mangiata, mentre la lucertola sarebbe rimasta al sicuro nella propria tana (la natura si comporta proprio come una madre, sa allattare e dar consigli).

Durante quei giorni non facevo altro che disegnare le lucertole salvate fino a quel momento. Le immaginavo come fossero state cosa viva sopra al foglio, aggiungendoci l’ombra così da farle sembrare in rilievo. Allora sistemavo i disegni uno di fianco all’altro ricomponendo quelle che secondo me potevano essere le varie famiglie alle quali le lucertole appartenevano, quindi mettevo i fogli in un cassetto della scrivania.

Un giorno mi venne di fare un disegno della pianta d’ortica. Per riuscirci, al contrario di come avevo fatto per le lucertole, dovetti ricorrere soltanto alla memoria. Non avevo appuntato niente circa la struttura della pianta, il numero di foglie con le relative dimensioni, i colori, l’altezza, il raggio d’estensione dei rami.

Nonostante ciò, la mano si mosse con fluidità e il disegno venne fuori da solo, come se d’un tratto mi fossi accorto di avere dentro di me tutto quel che avevo bisogno di sapere, come se non ci fosse distinzione alcuna tra me e l’ortica.

Una volta finito, osservai il disegno a lungo, quasi a perdermi in ogni venatura di ciascuna foglia. Poi misi il disegno in un cassetto della scrivania diverso rispetto a quello in cui avevo messo le lucertole. Era importante, anzi fondamentale, tenere i disegni a debita distanza.

Allontanavo le lucertole dall’ortica.

Se da un lato l’essere certo che pianta e animale fossero al sicuro mi faceva provare un senso di felicità indescrivibile, dall’altro i miei genitori continuavano a ripetere che avrei dovuto cambiare interesse, farmi degli amici, leggere dei libri così da farmi una cultura, ripassare gli argomenti scolastici in vista di settembre, imparare a suonare uno strumento, trovare una ragazza e non passare il resto della vita da solo, capire come si coltivi un orto, studiare più lingue possibili, trovarmi un lavoretto per guadagnare qualche soldo, fare delle esperienze che potessero formarmi in quanto individuo pronto a entrare nella società. Insomma, un’infinità di cose che mi entravano da un orecchio e mi uscivano dall’altro.

Era soprattutto mio padre a insistere. Da come mi parlava avevo capito che la buona donna di mia madre avrebbe voluto lasciarmi fare quel che mi interessava ma allo stesso tempo non voleva deludere né far arrabbiare mio padre. Un po’ mi dispiaceva per lei, per quella gabbia in cui era costretta. Ma ero in gabbia anche io; restare in casa con i miei genitori durante i giorni di pioggia non mi rendeva felice.

Allontanavo le lucertole dall’ortica.

Successe all’improvviso, in un sabato d’agosto. La terra iniziò a tremare facendo oscillare gli alberi come se questi fossero stati scossi da un gigante invisibile; anche l’ortica vibrava. Vidi una lucertola fuggire veloce, poi sentii un tonfo e voltai lo sguardo. Le pietre iniziarono a cadere, una dopo l’altra. Cadde il tetto, caddero le mura, cadde ogni cosa.

In quel momento, i miei genitori erano in casa. Quando la scossa terminò non mi alzai per andare a controllare come stessero, che fine avessero fatto, se avessero bisogno di aiuto, se fossero morti. Guardai la scena reggendo la penna con cui annotavo tutte le mie considerazioni. Il mio compito era salvaguardare la vita delle lucertole e l’integrità dell’ortica, tutto qua.

Così feci l’unica cosa che reputai utile, presi a urlare il nome dei miei genitori, prima uno, poi l’altro, di nuovo quello di mia madre, due volte, poi quello di mio padre, tre volte, ancora mia madre, mio padre, ma la mia voce trovava riscontro soltanto nell’eco della valle. Quindi mi voltai a controllare l’ortica. Con un semplice gesto della mano allontanai due lucertole per poi segnare il loro passaggio sul foglio. Un evento più unico che raro, vederne due insieme.

All’improvviso sentii scendere una lacrima: era il pensiero di mia madre.

Smisi di allontanare le lucertole dall’ortica.

Mi fu chiaro in un attimo. Lo capii quando l’ortica finì di vibrare e nella campagna tornò quella pace che l’aveva sempre contraddistinta, con la luce a dorare ogni filo d’erba sopravvissuto senza fare distinzioni.

Non andai a cercare i corpi dei miei genitori né tentai ancora una volta di chiamarli per nome. Nemmeno urlai o corsi al paese vicino per chiedere aiuto. L’unica cosa che feci fu asciugarmi il viso con il dorso della mano per poi sorridere del fatto di essere vivo.

Com’era caldo e avvolgente, il sole.

Ottobre 2024

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