Laura Colantonio
Noveminuti
ANNO 02 | SPECIAL 03 | AGO 2024
Notte insonne, incubi a tema. Mi alzo sfinito dalla resistenza degli occhi a chiudersi, hanno abbandonato il cervello, è nel panico da mesi. Ha le sue ragioni, è la terza volta che ripeto l’ultimo esame.
Riuscirò a farmi dare un voto?
Cammino a tentoni per raggiungere la caffettiera. La piastra elettrica è in black-out.
L’allarme degli appartamenti del circondario perforano i timpani, sono sveglio del tutto.
Alzo a mano le tapparelle, cerco un pezzo di cielo da maledire.
È buio, e sono solo le otto di mattina. Pioggia, che tu sia maledetta.
Schiaccio naso e fronte al vetro, l’iride punta ai cavalli al galoppo su Corso Matteotti, insieme a mucche, asini e gazzelle. Cani, cinghiali e pecore si affrettano per non essere schiacciati in mezzo. Maiali e vitelli fanno da parabordo contro alberi, cassonetti e panchine fisse sui marciapiedi.
Cos’è, una manifestazione?
Guardo il letto attratto dall’odore della cuccia. No, penso, non gliela darò vinta a mia madre: oggi non fallirò. E per la gioia di mio padre, andrò in vacanza a bruciare la pelle al sole di un’isola greca.
Da un cumulo di nuvole piovono gocce grosse come pepite di ghiaccio e picchiano contro la finestra.
Terra e cielo sono d’accordo: è l’apocalisse.
La pesta degli animali sull’asfalto scuote la palazzina, il lampadario oscilla, o forse è un’allucinazione dovuta alla stanchezza. Cerco della caffeina nel frigorifero.
Lo schermo del cellulare si accende e la notifica mi provoca una fitta al petto: è l’affitto. Colpa di mio padre, mi ha cacciato di casa quando ho detto che mi ero iscritto ad Architettura anziché a Chimica.
“Porti il nome di un ricercatore, non puoi andare a progettare palazzine”.
Duro, ma convincente, così ho preso le distanze dalle Scienze.
Al suo funerale, però, ci sono andato. Mani al cinturone, mia madre da un lato della cappella, ed io dall’altra. Nessuno dei due ha avuto il coraggio di sparare.
A me interessava un assegno con qualche zero per dimenticare il silenzio ostile di quattro anni. Avevo persino fatto i compiti: avevo letto alcune delle previsioni catastrofiche pubblicate su articoli scientifici firmati da papà.
Illuso. Cambia il mondo, ma non i miei genitori: dell’illustrissimo professor Santori eredito una foto, consegnata a mano: «Tuo padre voleva la tenessi tu».
Nell’immagine s’intravede il sorriso di mio padre, abbraccia un uomo vestito di bianco dal cappello alle scarpe, il suo volto ha lineamenti appena riconoscibili. Un tipo singolare: non ha la bocca. Sul retro, il nome: Shaimo.
L’unico che può tirarmi fuori dall’inferno è Paolo, il mio compagno di studi dai tempi del liceo.
Le scosse di terremoto hanno aggiunto caos al disordine, recupero il cellulare sotto la foto che speravo di avere perso. Ma il segnale è sparito, sono all’inferno: costretto a casa, invece di essere in facoltà a dare l’esame, ultimo ostacolo per chiudere il giro di campo e privare mio padre della soddisfazione di sapermi fallito.
Il buio si rischiara, dalla finestra entra luce, è del sole, ma in questo buco di casa manca l’aria.
Apro i vetri e il pandemonio degli animali in fuga che mi tiene in ostaggio romba più forte.
Auto e motorini sono rottami ammassati su aiuole e cespugli schiacciati o divelti dal suolo. Guardo in direzione della facoltà, siamo tutti blindati tra quattro mura?
Il mio professore avrà dormito in Aula Magna, pur di non perdere l’occasione di registrare una sessione di “bocciati”.
Suonano al citofono.
Paolo? Raggiungo la cornetta con l’entusiasmo di un bambino che va a una festa.
Nessuno risponde. Apro lo stesso, Paolo è di casa.
Dalla rampa delle scale osservo salire un uomo in abito e cappello bianchi, ha un aspetto familiare.
Rientro in casa, chiudo la porta, prego non mi abbia visto.
Lo spioncino ingrandisce la faccia che si avvicina al campanello.
Non sono in casa, penso in apnea.
L’uomo insiste.
Mi avvicino alla finestra, l’anarchia in strada copre l’affanno del mio respiro stretto tra panico e singhiozzi.
L’uomo sul pianerottolo insiste, batte i pugni sulla porta. Dal concerto di sirene deduco ci sia di nuovo black-out.
E il cielo si unisce, da azzurro diventa bianco, grigio, a tratti nero.
L’uomo è impaziente, consuma le scarpe sulle piastrelle del pianerottolo.
Non cedo.
E se fosse la Morte?
Dubito, troppo disturbo per uno studente innocuo come me.
Fisso la figura dietro lo spioncino, tiene le spalle rassegnate sulla porta dei vicini: ecco dove l’ho visto, nella foto, è l’amico di papà.
Qui, oggi, per me?
Preferivo la Morte a un estraneo senza bocca.
Premo i polpastrelli sulle meningi con la speranza di produrre una buona scusa.
Dirò che devo uscire.
Sul pigiama infilo una camicia e un jeans, sono più credibile.
«Lei deve essere… Shaimo. È venuto in macchina? Mi darebbe un passaggio? Sa, ho un po’ di fretta.»
Con un passo l’uomo mi spinge in cucina. Smetto di sorridere e di parlare, a uno senza bocca manca il senso dell’umorismo.
Mi costringe con le chiappe alla sedia, affila gli occhi, nascondo a fatica il disgusto che la sua faccia mi provoca.
Si muove come se conoscesse l’appartamento, si avvicina alla finestra, fa cenno di ascoltare il frastuono della transumanza che paralizza la città.
Abbasso lo sguardo, come facevo al liceo per evitare di essere interrogato.
L’uomo mi viene incontro, sotto i piedi un’altra scossa si propaga, due sedie cadono, il lampadario oscilla.
Giriamo gli occhi in tondo alla stanza per afferrare al volo dei bicchieri e una bottiglia pronti a frantumarsi a terra.
Shaimo rivolge i palmi rosso fluo a terra, placa il tremore. Dallo stupore mi prende il singhiozzo, strozza il fiato. E le sue mani tornano di un rosa pallido.
«Non mi guardi in quel modo, non ha mai visto qualcuno avere paura?» dico.
Shaimo gira la testa, le nuvole si muovo in fretta, la stanza si rabbuia. L’aria fischia attraverso l’infisso serrato in tempo prima che la pioggia allaghi la stanza.
Dal comodino l’uomo prende la sveglia e la scaraventa contro il pavimento.
Il gesto mi lascia indifferente, erano mesi che non funzionava.
A piccoli passi accorcio la distanza dalla porta. Sudo, mi rendo conto di quanto sia pericoloso uscire, ma il tipo che ho davanti lo è di più.
Al tocco dell’indice Shaimo fa partire sullo schermo della tivù immagini di frane e valanghe accompagnate dalla voce di un reporter udibile a tratti.
Il display del microonde è attivo: conta alla rovescia, 3-2-1, DIN. Lo sportello si apre, è il segnale.
L’uomo tira fuori dalla tasca due auricolari, una la indossa lui, l’altra è per me. È un apparecchio molle e rosa, ricorda un chewing-gum. Con espressione di schifo lo inserisco nella cavità dell’orecchio ed emette un BEEP.
«Unità 28362598, attiva. Bentornato Dottor Santori».
Shaimo manipola il dispositivo come qualcosa che conosce e mi guarda.
«Io, ehm, non sono il dottor…», provo a dire.
La voce metallica continua: «Sono qui per assisterti nella missione. In 12 minuti l’edificio crollerà. Prendi le scale e cammina in direzione sud-est, sì è aperto un varco per raggiungere il raccordo con i membri del gruppo. Procedi a passo v e l o c e per 200mt. Poi, c o r r i 500mt. Frequenza cardiaca: ottimale».
Shaimo tocca uno schermo da polso, fa partire il cronometro.
Afferra il mio braccio, resisto, cerco le chiavi di casa. Shaimo si oppone, fa cenno con la testa che non c’è più tempo.
Prima di chiudere la porta mi fermo a guardare il plastico del progetto di tesi, truciolato e colla misti a insonnia e gastrite abbandonati sul pavimento. Era un buona idea quel complesso abitativo, ma un posto sicuro dove vivere, forse, non esiste.
«N o v e m i n u t i», dice la voce.
Shaimo mette in mostra la sclera degli occhi per farmi paura.
Lo faceva anche mio padre, e con le sopracciglia alla fronte ripeteva: «Non c’è futuro se, prima, non salviamo il presente.»
Agosto 2024