Matteo Parmigiani
Appena prima del nuovo giorno
ANNO 02 | SPECIAL 03 | AGO 2024
La sveglia gridava già da quasi mezzo minuto quando mi decisi a girarmi sul fianco, allungare il braccio e spegnerla. Con fatica misi i piedi fuori dal letto e raggiunsi il bagno. Un nuovo giorno e ancora quello strano senso al quale non riuscivo a dare un nome. Era come se le ore, perfino i minuti, passando, mi avvicinassero sempre più alla catastrofe. Presagivo, davanti a me, qualcosa di terribile. Anche lo specchio non diceva nulla di buono. Appariva un volto stanco, emaciato. Due borse violacee scavavano gli occhi. La barba di tre giorni e dei capelli mosci, cadenti. Ritratto di un disfacimento umano. L’inerzia mi spingeva verso il nulla. Indossai le prime cose che trovai nell’armadio. Una camicia mai stirata, pantaloni con macchie annesse e un maglione leggero, sudato. Urlava lavatrice ma me ne fregai e lo misi lo stesso. La micosi cutanea che aveva trovato asilo sul mio petto s’era allargata. Ancora qualche giorno e sarebbe arrivata alla pancia, poi giù fino all’ombelico e oltre. Ma una voce bisbigliante suggeriva che non l’avrei vissuta quella condizione. Qualcosa di misterioso sarebbe accaduto, m’avrebbe travolto e rivoltato tutto, spirito, ossa, organi e pelle. La pelle, sì. Quella non mentiva. Era lì a indicare come una mappa antica lo stato della mia anima.
Per colazione un bicchiere d’acqua del rubinetto e due fette di pane secco. La recessione, sempre lei, puttana miseria. Da sei mesi razionavano l’acqua potabile nel palazzo. Razionavano anche il cibo. Troppe bocche da sfamare.
Aprii il rubinetto e il collettore cominciò a tremare mentre l’acqua sgorgava poco alla volta, indecisa. Riempii il bicchiere e bevvi. Poi masticai la fetta di pane. Una fitta mi traversò le gengive. Sembrava quasi che anche i denti si stessero arrendendo. Soldi per il dentista non ne avevo, mi massaggiai la guancia e uscii.
Pioveva. Pioveva sempre, ma l’acqua piovana non era più riciclabile. Aveva assunto un colorino simile alla ruggine. Inoltre negli ultimi cinque anni eravamo passati da temperature mediterranee a questi quarantadue gradi perenni. Oltre al caldo umido, afoso, paludoso, s’era posata sulle strade e sui campi una foschia quasi gelatinosa e la pioggia, fine fine, aveva preso a bagnarci e continuava senza sosta. Tra i meteoropatici questo clima grigio aveva suscitato un’epidemia di depressione. Suicidi aumentati quasi del trenta per cento. Anche i non meteoropatici, come me, non erano stati risparmiati. Questo caldo estenuante toglieva tutte le energie. Ce ne andavamo in giro per le strade muovendo le gambe come fossero ingessate. Il cemento tratteneva tutto l’ossigeno e la disoccupazione era alle stelle. Da quasi due anni non si produceva più nulla. I pochi posti di lavoro, per lo più pubblici, erano assegnati a chi poteva permetterseli. Avevo sentito di casi in cui i funzionari promettevano il settanta per cento del loro stipendio per essere assunti. A chi lo promettevano non l’ho mai capito. La corruzione era come una di quelle malattie che colpiscono il cervello, invisibili e irreversibili.
Il caldo impenitente aveva ridotto l’asfalto a una pappa nerastra della consistenza del fango. Sprofondai le scarpe e mi avviai in quella cloaca. Dovevo raggiungerla. Che sia l’ultimo giorno della mia vita? Almeno parlarle, almeno salutarla. Una magra consolazione prima d’andarmene per sempre.
Percorsi il lungo viale fino all’incrocio. Di automobili non se ne vedevano più da un pezzo. La recessione, sì, sempre lei. La gente faceva su e giù per la strada senza una meta evidente. Volevano dar l’impressione di cercare un lavoro, di provarci ancora quantomeno. Ma potevo leggerlo in quei visi, erano per strada perché era troppo dura starsene in casa tutto il giorno, ma fuori, non c’era più nulla da cercare.
Voltai l’angolo e salii la scala di metallo fino al ponticello pedonale che scavalcava la ferrovia. Buttai uno sguardo sotto, un vagone abbandonato, probabile dimora di qualche senzatetto, sostava silenzioso sul pezzo di binario non ancora sommerso dalla melma.
Una lieve scossa fece tremare la terra, non ci feci caso e proseguii. Arrivai davanti a casa sua e mi poggiai al muro sull’altro lato della strada. Era quasi ora. Rimasi lì dieci minuti. La pioggerella mi appesantiva le spalle. Ma cosa stava succedendo? Che sia malata? Ne passarono altri dieci. Spostai un sasso nero con la punta della scarpa destra. Era uno strano ritardo.
Poi la porta s’aprì e la vidi sbucare furtiva. Mi lanciò un’occhiata veloce e distratta ma bastò a farmi sentire il calore di un tempo che mi invadeva il corpo. Guardò la strada e s’incamminò. La seguii con gli occhi finche non svoltò l’angolo. Anche per quel giorno era andata e non ero riuscito a fermarla. Non avevo trovato nulla da dirle.
Lisa. Avevo scoperto il suo nome circa dieci giorni prima. Era venuto un uomo proprio mentre la aspettavo e aveva schiacciato il citofono, quello più in basso. Una volta salito, ero andato a leggerlo. L’uomo era rimasto in casa sua quasi due ore e una volta uscito era sparito in tutta fretta. Non lo rividi più ne seppi chi fosse o cosa volesse.
Il resto della giornata fu schiacciato dalla noia.
La mattina seguente aprii gli occhi molto prima del suono della sveglia. Rimasi nel letto ad aspettare che facesse il suo. Non appena squillò mi girai e la spensi. Tornai per qualche istante a fissare il soffitto cosparso di macchie umide e muffa. Fu la scossa a convincermi a uscire dal letto. Non era forte ma la sentii. Nell’ultimo periodo erano sempre più frequenti. Mi alzai, tappa al bagno, uno sguardo alla decadenza che mi accompagnava, colazione con pane secco e acqua e via, giù per le scale. Come tutte le mattine.
Per strada m’accorsi che il cielo era più scuro quel giorno. La tonalità di grigio era più intensa, dava quasi sul blu. Mi fece male agli occhi. Anche la pelle scottava.
Percorsi la strada stando sullo stesso lato dove stavo tutti i giorni. Arrivai davanti alla porta di Lisa giusto in tempo per vederla uscire. Decisi di seguirla. Le stavo a qualche metro di distanza domandandomi perché stessi facendo quello che stavo facendo. Non ricordo dove, ma avevo letto che il desiderio sessuale nella popolazione era praticamente scomparso. Non c’erano più nascite, nessuno si sposava più, nessuno che faceva l’amore. Forse lo sentii alla radio. Non ricordo. Comunque mi chiesi se quella statistica comprendesse anche me. Non nutrivo voglie particolari nei suoi confronti, ma allora? Volevo parlarle e basta. Conoscerla. Forse era il senso di solitudine a guidarmi. Non lo capii mai.
Lei camminava veloce, saltellando di tanto in tanto per non sprofondare nella fanghiglia o cadere in qualche buca.
Un lampo aprì come una crepa il cielo e una scossa del terreno mi fece perdere l’equilibrio. Anche lei tentennò, poggiò il braccio alla parete, si voltò e mi guardò veloce prima di riprendere la sua corsa. Le persone per strada iniziarono a correre in cerca di riparo. Ci misi qualche secondo a capire cosa stesse accadendo. La terra cominciò a tremare più forte. Le scosse di fecero prolungate e gli intervalli di tempo tra loro si accorciarono a pochi secondi. Il cemento dei palazzi si crepò e anche l’asfalto sotto ai miei piedi prese a spaccarsi. Un fumo più denso del vapore prese a spruzzare dal ventre della terra. Poi sbucò la vegetazione. Arbusti e cortecce spuntavano dalle crepe e dai tombini. Dei rami avvolsero un’auto abbandonata lì vicino e la ribaltarono mentre la vegetazione copriva la facciata del palazzo che avevo davanti.
Cominciai a correre saltando le radici che sbucavano e divoravano la strada. attraversai un muro di vapore e mi ritrovai fradicio. La cercavo con lo sguardo ma non la trovavo. Foglie e arbusti mi sbucavano tra le gambe. Quando ripresi a correre sentii rami d’edera corrermi dietro. Voltai l’angolo e riuscii a infilarmi nell’androne di un palazzo. Appena in tempo prima d’essere anch’io travolto e inghiottito dalla boscaglia che cresceva senza freni mangiandosi la città. Una parete di foglie ostruì l’uscita dell’androne dove stavo. Mi sedetti tenendomi le ginocchia tra le braccia e sperando che finisse tutto. Le scosse di terremoto continuarono per un tempo che non riuscii a definire, forse un’ora, o magari solo dieci minuti. Presero ad affievolirsi sempre di più fino a diventare quasi impercettibili. Rimasi seduto in un angolo dell’androne a dondolarmi per un po’ prima di capire che fuori tutto si stava dando una calmata. Appena mi sentii più tranquillo strisciai sulla pancia fino all’ingresso. Mi feci largo nella parete di foglie e misi fuori la testa, giusto per buttare un occhio. Una cornacchia mi volò a pochi centimetri dalla testa e andò a posarsi sul davanzale della finestra di un seminterrato.
Una lieve nebbiolina umida si stava posando su tutto. Mi alzai e uscii. Il terreno era coperto di erba e muschio. Dell’asfalto non c’era più traccia.
In giro non c’era più nessuno. La situazione, così come si presentava, non suggeriva altra soluzione che tornarmene a casa.
Mentre camminavo altre due scosse mi fecero tremare. Affrettai il passo e quando voltai l’angolo sentii una voce di ragazza. Mi guardai intorno ma non capivo da dove proveniva.
«C’è qualcuno? Aiutatemi» insisteva la voce.
«Dove?» chiesi.
«Sotto il glicine.»
Mi voltai, alle mie spalle una folta chioma di foglie e fiori viola. Li aprii e strappai tagliandomi. Lisa era lì sotto. Non so come, intrappolata. Le tesi la mano, lei l’afferrò e l’aiutai a risalire. Fece un piccolo saltello uscendo dall’intreccio di rami e radici e me la ritrovai davanti. Era la prima volta che la vedevo da così vicino.
Mi guardò e accennò a un timido sorriso. Si pulì i pantaloni e la camicetta, mi fissò di nuovo e annuì. Così, senza dir nulla. In segno di gratitudine. Poi si incamminò nella direzione opposta a quella in cui eravamo venuti.
«Scusa» le dissi dopo un’istante. Cominciai a inseguirla, era l’occasione che aspettavo e non volevo perdermela. Una strana eccitazione, piena di speranza, rinacque dentro me. Erano anni che non mi sentivo così. La raggiunsi e le camminai di fianco, pensando a qualcosa da dirle. Dopo pochi passi sentimmo un’altra scossa. La terra sotto di noi si crepò. I palazzi cominciarono a ondeggiare. Ripresero a crescere dalle spaccature nella terra serpentoni d’edera che rapidissimi coprirono il terreno e le facciate dei palazzi. La vegetazione cresceva avvolgendosi tutto.
Presi Lisa per la mano e mi avviai verso una via laterale. Lei mi seguì senza opporsi. Corremmo inseguiti dalle piante rampicanti. Le facciate dei palazzi si spaccarono. Dalle crepe e dalle finestre sbucavano liane e fusti d’edera.
Raggiungemmo la stazione, o quello che ne rimaneva, entrammo e corremmo verso i binari. Trovammo riparo dentro un vagone vuoto. «Forse non è stata una buona idea» dissi. Poi il vagone si ribaltò e ci trovammo sdraiati sul soffitto. I finestrini del vagone vennero sbriciolati dai rami. Le piante rampicanti entrarono e coprirono le pareti e i sedili. Poi la scossa finì e sentimmo solo silenzio.
Strisciai fino alla porta e provai ad aprila. Era bloccata dai cespugli. Ci misi i piedi contro e spinsi con tutta la forza. Cedette e riuscimmo a uscire. il vagone era stato sollevato dai rami a qualche metro da terra. Potevamo vedere parte della città, tutto era coperto da un immenso giardino. Solo le punte di alcuni grattacieli sbucavano dalle montagne d’edera che li ricoprivano.
Un canarino prese il volo e ci passò vicino. Non se ne vedevano da un pezzo. restammo a fissare quello spettacolo per qualche istante poi Lisa mi sorrise e mi salutò.
La guardai mentre scendeva verso terra, poggiando piedi e mani tra i fusti e le fronde.
Si voltò a lanciarmi un’ultima occhiata. Alzai la mano in segno di saluto. L’indomani sarei tornato sotto la sua porta. Ma sapevo che tutto sarebbe stato differente. Lo sapeva anche lei.
Mi accorsi che non pioveva più. Stavo meglio, anche lo sfogo cutaneo sembrava essere scomparso e la città, non l’avevo mai vista così bella.
Agosto 2024